“VENERE IN PELLICCIA” al Teatro Lo Spazio: la recensione

La scelta di confrontarsi con i grandi classici della letteratura implica sempre un grande lavoro di ricerca, ancora di più, quando si tratta di modelli temporalmente vicini e prossimi al nostro modo di pensare. Venere in pelliccia è uno spettacolo “rischioso”, in quanto impone di riflettere sulla nozioni di radicalità e ambiguità. Anche dal punto di vista tecnico, si tratta di una pièce di grande complessità, a causa delle numerose ellissi temporali, che richiedono una disciplina assoluta, da parte degli interpreti e della regia.

Siamo soliti impiegare il termine “metateatrale”, come fosse un grande cappello sotto cui mettere con leggerezza ogni testo della drammaturgia, che proponga una riflessione del teatro su stesso. Il termine greco mètasi riferisce a una fortissima spinta verso “ciò che sta dopo”, di ciò che guarda con gravità radicale verso un “oltre”. E nondimeno, questa messa in scena non si assume il compito di rivolgersi in maniera tanto radicale – e al contempo disciplinata – nella direzione di ciò che sta oltre la lettera del testo.

Cosa significa provocare scandalo, oggi?

Non è lecito fermarsi alla nozione di masochismo – che pure rimane tema centrale della vicenda-, non è sufficiente nemmeno ispirarsi ai celebri predecessori: è necessario mettersi in gioco, calandosi rischiosamente in questa losca faccenda umana, nel tentativo estremo di non abbandonarsi a soluzioni immediate. La nostra normalità è l’incoerenza, la nostra norma è non dare più nessuna valenza sostanziale al concetto di normalità.

Al centro della storia sta una delle figure più straordinarie della nostra cultura: la femme fatale. La vita di queste donne è segnata da un carattere di oscurità e al contempo di fascino, in forte prossimità con il male: la seduzione è ciò che, nella sua corruzione, assimila il femminile al demoniaco.

In questa storia la figura dell’attrice è essenzialmente demonizzata e ridotta al suo inarrestabile potere sessuale. C’è una traccia indelebile di ambiguità del femminile – che corre da Euripide fino ai pregiudizi odierni – e che non solo non puòessere elusa, ma ancora di più, rischia di provocare gravi danni di credibilità, se non adeguatamente veicolata nella resa scenica.

Nel testo è messa in scena tutta la potenza sovversiva di cui il femminile è capace, nel pericoloso processo di superamento dei rapporti canonici tra uomo e donna. In una tale atmosfera dirompente di crisi, come sarà la décadenceottocentesca – si ricordi l’ossessivo riferimento nel testo al 1870 -, in un sentimento per certi versi apocalittico e di fine, non lontano dai tempi odierni, si mostrano in tutta la loro efficacia i temi dell’amore e della prossimità. Quest’ultimo assume un carattere di centralità oggi, tanto da fare esplodere, in maniera più o meno avvertita, tutte le nostre certezze.

E allora davanti alla domanda iniziale, intorno a cosa significhi provocare scandalo oggi, rimane solo un’ineludibile e problematica risposta: l’amore. L’amore per il prossimo e per un’arte che potrà sopravvivere solo a patto di una profonda revisione delle nostre abitudini, solo con l’accettazione delle nostre colpe e – come ha detto qualcuno – del bisogno di “fallire ancora.

Venere in Pelliccia di David Ives, trad. Masolino D’Amico, è andato in scena al Teatro Lo Spazio dal 15 al 25 ottobre, per la regia di Gianni de Feo, con Patrizia Bellucci e Gianni De Feo, una produzione Florian Metateatro.