#Lo stupro di Lucrezia sarà in scena fino al 1 ottobre al Globe Theatre di Roma, per la regia di Marco Cariniti, con Sarah Biacchi, Antonella Civale, Charlotte De Rossi, Jun Ichikawa, Marianne Leoni , Noemi Smorra, Mersila Sokoli.
Il mito della fondazione non ha più alcun significato, solo un’eco antica, che non dischiude più il futuro. Qui sta l’irriducibile distanza tra noi e l’antichità: in una percezione del tempo non più circolare e così ricca di rimandi. Per definizione, noi moderni siamo innovatori: la strada già battuta non è più sicura. Eppure, come testimonia il discorso d’apertura del regista Carniti, la violenza sulle donne sembra essere “un filo rosso che unisce i secoli”. Nondimeno, l’innovazione è l’intento che sottende alla realizzazione dello spettacolo, nato da un intenso lavoro laboratoriale, di cui vediamo ancora le tracce (forse a volte troppo lampanti), sul suggestivo palco del Globe.
La ricerca di innovazione è all’opera ovunque, ad esempio, nella scelta del testo. Pur non tradendo il repertorio del Globe, la riscrittura scenica presentata è capace di sfruttare, con saggezza, la maturità tecnica delle interpreti, nel tentativo – non sempre pienamente riuscito – di svincolarsi dalla verbosità in cui spesso si cade quando si è alle prese con i grandi classici.
Il poema shakespeariano prende vita nel coro delle donne. Il carattere di straordinaria ricchezza della nostra epoca, rispetto a quella antica, è subito evidente: le straniere non sono elementi estranei alla società, sono parte integrante, sono corpo e carne viva di questo coro di voci. Lo slittamento semantico e il gioco di rimandi lanciati dalla regia – pur sempre minimale – oscilla tra i diversi significati che possiamo dare al termine “coro”. Vediamo inscenata la versione più antica del coro, ovvero di coloro che si fanno portatrici della sapienza della polis, ma anche la saggezza oscura e oracolare, tipica delle streghe macbethiane; mentre alla fine rimane solo un coro di preghiera, vibrante e appassionato (sostenuto da voci incredibili, come nel caso di Sarah Biacchi).
E così anche le interpreti incarnano un’epoca. Davanti alla ieraticità di Jun Ichikawa non ci si può che inchinare, come al cospetto di una regina. Nella potenza erotica di Noemi Smorra sta tutta l’oscura eleganza delle streghe medievali. Nell’esile debolezza del grido di Lucrezia (Mersila Sokoli), tutta la forza della donna, che forse, più che dell’antichità, ci ricorda le nostre radici cristiane. Mentre sulla scena rimangono le tracce grottesche della violenza – perpetrata da un Tarquinio-Otello al femminile (Antonella Civale) – il mondo delle cose pubbliche è stato fondato, grazie a chi, a costo di dargli la vita, ha compiuto il sacrificio più estremo.