Si affaccia Il Bardo (Gianluigi Fogacci) sull’orlo del proscenio, avanza danzando per poi indietreggiare, s’accinge a narrare il poemetto che è primo parto della sua immaginazione.
Ad aprire la stagione del Silvano Toti Globe Theatre di Roma Venere e Adone di William Shakespeare per la regia di Daniele Salvo è spunto per una diretta assonanza fra due atmosfere: se la peste di Londra e la conseguente chiusura dei teatri non bastarono ad ostacolare la scrittura del Bardo nel 1654, accade così oggi entro una nuova pestilenza dove questa stessa scrittura ha bisogno d’esser resa manifesta.
Occupa lo sfondo un immenso cubo di vetro, tra le sue pareti i movimenti di due marionette ricalcano quelli dei personaggi di cui si fanno evocatori: laddove Venere (Melania Giglio) corre nel suovestito vermiglio, Adone (Riccardo Parravicini) sfugge all’inseguimento d’amore, fino a dirottarsi verso un’ultima pericolosa caduta.
“Non stancherò le tue labbra, ma le renderò sempre più avide!”-forsennata la dea sconquassa l’atmosfera col suo timbro, vibrante l’ugola tritura i suoni, deformando il suo linguaggio fino ad irretire il fuggitivo ormai esausto.
Al vapore diffuso, subentra un vento dirompente: scaraventati ai lati del luogo d’azione i due si ritrovano a terra per poi riprendere il loro alterco: la parola che sale al labbro si rompe tra i singhiozzi.
Ed ecco uscire Il Bardo dalla buca dell’avanscena, in sincronia con la sua descrizione, l’azione procede lasciando spazio ad un dialogo concitato al cui culmine la dea cade a terra stremata.
Lui è ora intrappolato tra le pareti vitree, lei si arrampica implorando un bacio che sugelli il fremente desiderio, la voce sempre più rauca e tonante si diffonde nell’aere provocandone la scossa: è il discorso di Adone sulla Lussuria un’articolazione brillante quanto volutamente ambigua, tanto vigorosa quanto veicolata da una rabbia che nella non accettazione di un amore mai saputo, trova il suo fondamento.
Poi una battuta di caccia, un latrato di cani, l’incursione progressiva di una Gelosia che dall’infondato sospetto si diparte fino a deformare i contorni del reale, una notte spietata.
E’ attraverso la scelta registica di uno schizzo di sangue che si origina dalla struttura centrale fino ad imbrattarne le pareti che morte di Adone è annunciata, suscitando la rabbia cieca della dea, la sua lacerante invettiva.
Il grido si alterna col canto, un canto evitabile che distoglie e devia l’attenzione a quella che invece si poneva come stra-ordinaria espressione nel vocalizzo stesso.
Si contamina il volto con il sangue dell’amato, le orbite scosse moltiplicano le ferite, la lingua si fa cemento, le lacrime sono amare: il dolore inevitabilmente permea ogni forma di amore.