“Perfect Days” di Wim Wenders, la Beat Generation arriva in Giappone

Il mondo in realtà è fatto di tantissimi mondi e non tutti sono collegati tra loro

Sakoku. Con questo termine si definisce l’isolamento per secoli del Giappone nei confronti del resto del mondo.

L’interruzione del sakoku si deve allo statunitense Matthew Perry che, no, non è il compianto attore di Friends ma sembrerebbe una curiosa e funzionale coincidenza. Il mezzo cinematografico è stato infatti un catalizzatore del fascino esotico giapponese, permeato all’interno della forma mentis occidentale. Da Ozu e Kurosawa (leggi qui per vedere quanto ha ispirato il cinema occidentale) fino a Miyazaki e Hamaguchi. Oggi il Giappone è più vivo che mai nelle nostre società, tanto da attrarre alcuni tra i registi occidentali più famosi a girare in loco storie giapponesi o con ambientazione nipponica (Memorie di una geisha di Rob Marshall e Lost in translation di Sofia Coppola sono due testimonianze di spicco).

Hirayama in una scena del film

Molti cinefili si aspettavano che questo momento sarebbe arrivato. Wim Wenders sbarca in Giappone e ci spiega come amare la semplicità in Perfect Days. Il film racconta di un inserviente giapponese, silenzioso e riflessivo di natura, che vive ogni attimo della sua abitudinaria quotidianità all’insegna della semplicità. Un senso di serenità pervade gran parte della pellicola, salvo poi mostrare l’ondulatorio andamento della vita di tutti, senza alcuna distinzione etnica, racchiuso in una scena finale tanto semplice quanto efficace. Kōji Yakusho si aggiudica la statuetta a Cannes come miglior attore proprio con quell’ultima scena, una vera e propria cartina tornasole di tutte le principali emozioni dell’uomo.

Wim Wenders è forse il regista più on the road del cinema contemporaneo, nel senso più stretto di trovare tematiche che accomunano paesi e storie diverse nel mondo. In tal senso, Perfect Days sembra aver portato quel senso di desolazione espressa dalla Beat Generation nelle terre del Sol Levante, dove, forse, non si è mai stati più soli di così. L’operazione di Wenders però si dimostra comunque un esperimento occidentale.

Hirayama è un “uomo delle pulizie” che con una dedizione giapponese un po’ stereotipata si occupa dei bagni di Tokio, mentre ascolta Lou Reed, guarda il baseball e beve tutte le mattine un soft drink dal distributore automatico. L’austero ma benevolo “sensei” (veramente mette e toglie la cera) che vive di un mestiere che apparentemente cozza con la sua profondità e ricercatezza interiore è un archetipo asiatico. Wenders lo riutilizza con il suo Hirayama (che stavolta mette e toglie veramente la cera) con l’intento di “parlare” al suo pubblico occidentale.

Sebbene questo film mantenga le atmosfere beat di Paris, Texas, è quasi più in correlazione con Il cielo sopra Berlino. Torna il tema del bianco e nero nei sogni molto surrealisti e quelle inquadrature del cielo di Tokio che aprono e chiudono il film. Un senso di serenità pervade gran parte della pellicola. Fino alla scena finale, quando ci viene mostrato l’ondulatorio andamento della vita che non conosce distinzione etnica. E’ così per tutti. Kōji Yakusho (Hirayama) si aggiudica la statuetta a Cannes, proprio con quell’ultima scena, una vera e propria cartina tornasole di tutte le principali emozioni dell’uomo. La conclusione è però sempre la stessa, sintetizzata nelle parole delle storiche canzoni che accompagnano il film. In the house of rising sun, it’s new dawn, it’s new day, it’s new life and I’m feeling good. Just a Perfect day.

Scritto, prodotto e diretto da Wim Wenders, il film è distribuito da Lucky Red e ha durata 123 minuti. Ora nei cinema.