Blade Runner, una delle serie cult della cinematografia mondiale, che ha cambiato la storia del cinema per sempre, segnando un’intera generazione.
Nell’ultimo millennio siamo stati sempre più ossessionati dalla tecnologia, dal bombardamento di informazioni da cui non riusciamo a schermarci, dalla propaggine virtuale rappresentata dal nostro smartphone, dall’idea di perfezione e bellezza che sembra possibile grazie alla chirurgia estetica, dalle immagini virtuali o ritoccate da cui poter estirpare ogni tipo di difetto e qualunque segno di invecchiamento e non sappiamo davvero più riconoscere, in mezzo a tanto frastuono, un vero essere umano con tutte le sue debolezze ed imperfezioni.
Il mondo cinematografico ha rappresentato – davvero tanti anni prima – quel pianeta dove ci stavamo inesorabilmente dirigendo, con una serie di film cult che hanno instaurato nelle nostre menti l’accettazione di una realtà distopica, tipica del genere cyberpunk, caratterizzata da un’ambientazione metropolitana, immersa in un paesaggio urbano nebbioso o in una atmosfera incessantemente piovosa e piena di mistero: a partire dal film Matrix delle sorelle Wachowski del 1999 – dove il cittadino, apparentemente convinto della sua dimensione di realtà, vaga invece in un mondo simulato di cui non è assolutamente consapevole, mentre l’individuo risvegliato è costretto a combattere ogni giorno per la sua libertà contro un mondo di macchine che lo tengono prigioniero -, per giungere a quello che è diventato un riferimento visivo per tutto il genere della fantascienza cinematografica, ossia il film Blade Runner, capolavoro diretto da Ridley Scott nel 1982.
Di questo classico del genere cyberpunk cerchiamo di conoscere il punto di vista di un giovane ricercatore spirituale, Adrian Fiorelli, Ideatore del Canale “Il Punto di Vista”.
Sei un appassionato esploratore di pellicole vecchie e nuove, cosa ha significato nella tua ricerca interiore il film Blade Runner?
Intanto ritengo che sia un film basilare per tutto il filone fantascientifico moderno, nel senso che è stato poi un modello a cui riferirsi, inoltre è una pellicola piena di simbologie, anche massoniche, ma quello che dal mio punto di vista è fondamentale è il tema dell’eterna lotta tra le macchine e l’essere umano, sempre più travolto dal transumanesimo. In qualche modo questo conflitto è presente in ognuno di noi: io per esempio perseguo l’equilibrio avendo eretto la mia dimora nel bosco, ma nel contempo utilizzo varie tecnologie nel lavoro, cercando però di farne strumento e di non divenire io stesso un loro strumento.
Questo film esamina l’eccesso, dove ci potrebbe portare la presunzione di poter effettuare manipolazioni genetiche capaci di superare l’idea del robot, creando macchine realizzate a immagine e somiglianza dell’uomo. Il regista è davvero bravo a rappresentare la perfezione di queste creature, dette ‘replicanti’. In un mondo disumanizzato – il film è ambientato a Los Angeles nel 2019 – dove sono stati creati questi androidi da utilizzare come schiavi nelle colonie dell’extra-mondo, avviene una sorta di ammutinamento: alcuni replicanti si danno alla fuga o tornano illegalmente sulla Terra, ma vengono inseguiti e “ritirati dal servizio”, ossia eliminati fisicamente, da agenti speciali chiamati “blade runner”. Ed è proprio sulla figura del poliziotto cacciatore, Rick Deckard, interpretata da Harrison Ford, che ruota tutta la storia.
Questi agenti uccidono senza pietà, eppure Deckard, proprio lui, finisce per innamorarsi di una bellissima replicante, Rachael, così perfettamente umanizzata da non essere riconoscibile se non in un particolare degli occhi. Lei non sa nemmeno di essere una replicante e quando lo scopre si rattrista finendo per intenerire il suo esecutore. La scena è bellissima perché sembra suggerire che l’amore può far superare ogni barriera e anzi l’emozione che tradisce il volto della donna sembra averla dotata di un’anima. Nel momento in cui il replicante prova emozioni, si attacca ai suoi ricordi, una sorta di umanità trapela allora dal suo volto. Insomma Rachael diventa più umana di un’umana e viene salvata dall’agente che fugge con lei.
Nello stesso tempo ci sono altri replicanti fuggitivi, Pris e Roy Batty, anch’essi realizzati con grande perfezione: umani-disumani?
Sconfortati come gli umani che sanno di avere la vita limitata – il loro modello, Nexus 6, può vivere solo 4 anni – cercano il loro costruttore per provare ad allungarsi la vita, ma la manipolazione genetica che li ha generati non lascia scampo. Roy Batty è disperato per aver perso Pris – uccisa nel frattempo da Deckard – e perché suo padre non è in grado di farlo vivere di più, per cui lo uccide con violenza cavandogli gli occhi. Eppure quando si trova faccia a faccia con l’agente dei Blade Runner avviene uno scontro emblematico dove la macchina sembra piegarsi all’uomo. Chi può dimenticare gli occhi trasparenti di Roy Batty? E soprattutto la sua celebre frase? Quelle parole lo rendono umano, perde la sua aggressività, si umanizza e da ‘quasi umano’ si lascia morire, cedendo all’uomo incaricato di ucciderlo nel momento in cui potrebbe farlo fuori. È una scena di grande impatto emotivo.
«Ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire».
Quando ho analizzato questa frase mi sono reso conto che Tannhäuser in qualche modo era un personaggio presente in molte leggende germaniche dove rappresenta l’uomo in eterno conflitto tra spirito e materia, tra amore spirituale e amore carnale, quindi qualcosa che effettivamente riporta benissimo il film. Ci sarebbe Harrison Ford che dovrebbe essere un umano, ma questa cosa in realtà ha lasciato un po’ di sospetti, perché Ridley Scott ha sempre sostenuto che in realtà fosse un Androide, mentre Harrison Ford ha sempre detto di aver recitato la parte di un umano.
Nel secondo film, il sequel “Blade runner 2049”, abbiamo la certezza che l’agente Deckar sia un essere umano, perché è sopravvissuto dopo trent’anni – la pellicola è ambientata trent’anni dopo rispetto al primo film -, mentre la bella Rachel è morta di parto o comunque sarebbe morta dopo i fatidici 4 anni. Il concetto di amore tra un umano e una replicante è sublimato in quanto di più miracoloso ci possa essere. Il loro amore ha generato un nuovo essere, un bimbo, o una bimba, nato/a attraverso un parto…
Questa storia è tutta incentrata su questa nascita, nella ricerca di questo bimbo, ‘nato’. Anche qui, l’agente k è un androide che tendenzialmente dovrebbe essere un robot o qualcosa di inanimato, cosa che nel secondo film viene spiegata in una frase che è passata completamente inosservata. L’androide Nexus 9 dice al comandante del posto di polizia, Madame, quando gli chiede di andare a ritirare un bambino ‘nato’, cioè di andare a uccidere un bambino ‘nato’, che non ha mai ritirato qualcosa di ‘nato’, finora. E quando Madame gli chiede quale sia la differenza, lui risponde: “Chi è nato tendenzialmente ha anche un’anima” e questo ci porta dentro al concetto dell’anima, di chi ha l’anima e di chi non ce l’ha. Ed è un proseguimento della storia d’amore tra Deckard e Rachael: dal loro amore si crea una vita e anche se in genere un androide non possiede un’anima, il film dimostra che l’unione di un uomo ed un robot, con la forza dell’amore, può far in modo che l’anima raggiunga qualsiasi corpo, diventando “più reale del reale”.
Del resto anche la descrizione dell’amore tra l’agente k e Joi, un’intelligenza artificiale olografia programmata per essere l’amante ideale che vive con lui in un appartamento alquanto spoglio, sembra tenero e reale. K la ‘aggiorna’ per mezzo di un ‘emanatore’, rendendola in grado di seguirlo fuori dal domicilio e questo regalo appare come un gesto d’amore. Anche l’ologramma Joi è talmente pieno d’amore per lui, da volersi materializzare attraverso il corpo di un’altra donna, una replicante vera, per poter essere tangibile.
L’ambientazione di Blade Runnes 2049 ha una forte relazione con le tecnologie virtuali, sembra un film moderno…
Infatti abbiamo comandi vocali a computer, abbiamo ologrammi, abbiamo una città completamente Cyber-banchizzata, le macchine volanti e i grattacieli, poi c’è la scena fantastica dove una giapponese, una Geisha, sta mostrando una pillola rossa a K, che alcuni teorici del complotto ricordano come la pillola rossa di Morpheus in Matrix. Inoltre, i ricordi sono impiantati nei cervelli dei protagonisti, anche attraverso supporti tecnologici all’avanguardia in grado di contenere un enorme quantità di Big-data.
Quanto è importante il tema dei ricordi nei due film?
È importantissimo, sia nel film del 2019, quando Rachael, attaccata ai suoi ricordi, scopre con disperazione che non sono realmente suoi, ma soprattutto nel sequel del 2049, laddove il tema dei ricordi risulta davvero cruciale.
Mi piace molto la conversazione tra l’agente k e la dottoressa Ana Stelline – che poi risulta essere la vera figlia della relazione tra Dechar e Rachael – quando l’agente k – che sospetta di essere il bambino ‘nato’ in quanto conserva il ricordo del cavallino di legno – le chiede perché i suoi ricordi siano così autentici. La sua risposta è semplicemente poetica:
«Vede, in ogni opera l’artista mette un pezzo di sé, ma io sono chiusa in una camera sterile dall’età di 8 anni e per vedere il mondo dovevo per forza immaginarlo, sono diventata brava a immaginare. A Wallace serve il mio talento per avere un prodotto stabile. È una cosa giusta. I replicanti vivono vite dure, create per fare quello che noi preferiamo non fare. Non posso aiutarvi con il futuro, ma posso darvi bei ricordi a cui ripensare e per cui sorridere».
Devo dire che poi il concetto dei ricordi della memoria viene fuori anche davanti ad aspetti più materiali: infatti quando l’agente k si reca alla Wallace Corporation per cercare dei documenti relativi allo scheletro che viene trovato nella cassa sotto l’albero rinsecchito, viene condotto in un archivio dove in un hard disk di quarzo praticamente si può immagazzinare una quantità enorme di dati e per un tempo di lunga durata…
Quella memoria in parte svanita era ciò che restava di dieci giorni di blackout avvenuto nel 2022. Quasi profetico per i tempi attuali!
Tra il primo Blade Runner ambientato nel 2019 e il secondo ambientato nel 2049, quindi trent’anni dopo, sono stati fatti tre piccoli cortometraggi che sostanzialmente spiegavano tutto quello che è successo tra il primo e il secondo film. Il primo di questi cortometraggi, intitolato 2036: Nexus Dawn, diretto da Luke Scott, è incentrato su l’ascesa al potere di Wallace, che acquisisce ciò che resta della Tyrell Corporation. Il secondo, sempre diretto da Luke Scott, è intitolato 2048: Nowhere To Run e si concentra sulla vita del personaggio di Morton, che compare all’inizio del film del 2049. Il terzo presule, Blade Runner: Black Out 2022, è un corto d’animazione diretto da Shin’ichirō Watanabe, incentrato su un lungo black out generato dalle macchine che si sono ribellate distruggendo gli archivi della Tyrell e togliendo l’energia a Los Angeles: la fabbricazione dei replicanti viene bandita, la Tyrell fallisce e viene acquista dalla Wallace. Insomma praticamente ha rovinato ed eliminato la maggior parte di tutte quelle memorie messe in determinate celle. Le uniche rimaste leggibili sono quelle in quarzo, che sono state usate anche in un altro film intitolato Infinity: in esse vengono imprigionate le anime.
Un ruolo a parte sia nel primo che nel secondo film è quello degli occhi, penetranti, trasparenti, brillanti, accattivanti, splendenti, bianchi, mancanti…
In una serie di Ridley Scott il protagonista ha così tanta forza negli occhi che a volte deve toglierseli e metterli in una scatoletta perché hanno il potere di distruggere qualsiasi cosa vedano. Nel film del 2049 osserviamo che è sempre tatuato sotto l’occhio sinistro il codice del modello Nexus che caratterizza la tipologia di replicante. Nel primo Blade Runner, il creatore Tyrell, viene praticamente ucciso da Roy Batty premendo con violenza sugli occhi.
Gli occhi rappresentano il confine con il mondo, la connessione dell’anima con l’esterno, è dagli occhi che gli Agenti di Blade Runner possono riconoscere se un individuo è umano o replicante…
E devo ammettere che anche nella vita reale mi capita spesso di osservare lo sguardo di un uomo o di una donna per cercare di scorgere la sua anima. Quando non riesco a vedere nulla, anche se mi trovo di fronte a un vero essere umano, anche se non sono in un film di fantascienza, mi assale spesso un Grande Dubbio: e se fosse un replicante?
Eppure anche nel finale del film del 2049, un futuro ancora da scoprire, è sempre il replicante che si sacrifica, cedendo il passo al vero essere umano, ma lo fa con una tenerezza e una dolcezza che sembra fargli sorgere nello sguardo proprio quell’anima che nella sua natura non dovrebbe esserci!
Foto di copertina: Blade Runner 2019: L’Agente Rick Deckard