Crescere a Napoli, in una famiglia di Camorra. Giocare a calcio tra ciò che resta degli spari, del sangue, dei morti.
Alessandro Gallo racconta la sua adolescenza nel monologo L’Inganno, che venerdì 21 ha aperto il secondo weekend del festival “La meglio Gioventù” a Bisuschio, provincia di Varese.
Sul palco Gallo è solo, nel buio una luce calda lo illumina mentre racconta la vita di una famiglia, di un gruppo di amici e di un quartiere tutto, il suo Rione Traiano.
Un padre e una cugina al 41Bis, nomi importanti che in strada valgono più di tutto il resto, che da soli possono servire ad aprire una strada o far abbassare lo sguardo.
Il testo di Alessandro Gallo racconta una Napoli vissuta in prima persona, lontana tanto dalle narrazioni televisive della Camorra quanto dalle bellezze che Partenope ha da offrire a chi la vive o la sceglie come meta di una vacanza.
Perché la vita vera è una cosa, la fantasia un’altra. E non è una questione di crudità, di violenza, di perfezione narrativa. La vita è semplicemente altro dal cinema e dalla tv.
Alessandro Gallo è il piccolo; il piccolo di famiglia, il piccolo nella compagnia di amici. Gioca a calcio per le strade, sa cosa significano gesti, parole e azioni della malavita e del vivere accanto alla malavita.
Poi ogni tanto la madre carica in macchina lui e i fratelli, in direzione del carcere dove il padre sta scontando la sua pena, su e giù per l’Italia a seguire le decisioni della giustizia.
Ma nella vita di Alessandro non c’è solo il peso di un nome, c’è anche l’intuizione di una professoressa, quella che lo avvicina al teatro e al percorso di vita da intraprendere dopo le scuole superiori, direzione DAMS di Bologna.
Ci sono moltissimi modi per parlare di criminalità organizzata, soprattutto ai più giovani e a chi vive lontano dai territori dove la Mafia e le sue mille declinazioni si fanno sentire forti.
Alessandro Gallo sceglie il teatro, il suo posto nel mondo – a proposito del titolo del festival “Io nel mondo”- e lo fa raccontando la sua storia, con la semplicità e l’immediatezza tipiche del racconto autobiografico.
Una fotografia, un dipinto, il ritratto di un quartiere e di una vita, il racconto bicefalo di una città e di una famiglia, che per quanto unite non sono mai la stessa cosa.
Lo spettacolo però non si chiude con l’applauso finale, con le luci che si riaccendono mentre il palco scompare dietro il sipario.
La scelta di Alessandro Gallo è infatti quella di fermarsi e chiacchierare col pubblico, rispondere alle domande di chi è rimasto a bocca aperta mentre Napoli e la Camorra fluivano davanti a lui per mezzo solo delle parole.
Sono soprattutto i ragazzi giovanissimi che chiedono, che vogliono sapere. Tanto che la prima domanda è su cosa sia il 41Bis. Una domanda che sembra segnare il distacco netto tra chi vi è cresciuto in mezzo e chi si approccia al tema per la prima volta.
C’è timidezza, la paura di chiedere qualcosa di sbagliato, di indagare troppo a fondo, ma nessuna domanda sembra troppo intima per chi si è spogliato della sua storia sul palco, per farne dono e memoria a chi non conosce.
Il confronto con il pubblico è a suo modo parte dello spettacolo, di ciò che Gallo vuole portare in scena, raccontare e trasmettere a chi lo guarda.
Si completa così la parte artistica e culturale con il valore civico de “L’Inganno”, il senso di un teatro che possa trasmettere più della bella serata e del talento attoriale, capace di insegnare qualcosa ma senza l’altezzosità di chi l’insegnamento pretende di darlo e basta.
Si arriva perché è naturale, quasi poetico. Si arriva perché è così che deve essere davanti a spettacoli come quello di Alessandro Gallo.
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