L’attesissimo ritorno di Brendan Fraser sul grande schermo, dopo una lunga pausa dovuta ad importanti problemi fisici e psicologici, ha rispettato le grandi aspettative.
L’attore – dopo le molestie subite, gli scellerati interventi chirurgici alla colonna vertebrale e la conseguente depressione – è tornato nelle vesti di un professore gravemente obeso che tenta di riallacciare i rapporti con la figlia.
Non è più lo stolto muscoloso George in the jungle o il sex symbol de La Mummia, Fraser accetta un ruolo in antitesi con quello a cui ci ha abituato; un professore atipico nel corpo e anticonvenzionale nell’insegnamento che, a parer mio, prende ispirazione diretta dal John Keating di Robin Williams ne L’attimo fuggente (a supporto di questa tesi, entrambi iniziano il loro percorso rivoluzionario partendo da una poesia di Walt Whitman).
Sebbene Fraser sia calamita di un attenzione meritata, (condita da una candidatura all’Oscar nella categoria più combattuta con un grandissimo Austin Butler nei panni di Elvis e il favorito Colin Farrell) chi non ha ricevuto le doverose luci della ribalta è il regista Darren Aronofsky.
Ha costruito un dramma esistenziale americanissimo non solo per quel che riguarda il tema vivissimo dell’obesità (tra le principali cause di morte negli USA) ma anche la piaga sociale del fanatismo religioso. Aronofsky non è nuovo nell’affrontare il topos del conflitto religioso interiore e prosegue l’analisi precedentemente affrontata in Noah, attraverso gli occhi del giovane membro della chiesa New Life, Thomas (Ty Simpkins).
La vera colonna portante su cui si regge il film è un altro tema, molto caro in quel di Hollywood, della redenzione dell’uomo. Charlie (Brendan Fraser) ha abbandonato anni orsono la moglie e la figlia Ellie (Sadie Sink) per amore di un suo studente. La costruzione del rapporto conflittuale tra un padre assente e una figlia adolescente è più o meno la stessa di The Wrestler, con un padre che fa di tutto per redimere le sue colpe, passando talvolta per la sofferenza fisica, come nel caso di Charlie. In questo senso la redenzione per Aronofsky è intesa nel senso più cristiano del termine e si riallaccia con la tematica religiosa del conflitto.
Menzione d’onore va all’interpretazione magistrale di Hong Chau – per la quale è in concorso come miglior attrice non protagonista agli Oscar – nei panni di Liz, un’intimissima amica di Charlie nonché sua infermiera domestica, con un intrecciato passato da scoprire nel corso del film.
Si faccia particolare attenzione alla chiave di lettura finale in riferimento alla celeberrima balena bianca di Melville.
Questo film consacra (o per alcuni come me, conferma) Aronofsky nell’Olimpo dei più grandi registi contemporanei.