“I giganti della montagna” ed il destino del teatro. Intervista al regista Claudio Boccaccini

Pirandello sembra proprio averci visto lungo: la sua ultima – nonché incompiuta – opera, che porta il titolo de “I giganti della montagna” lascia ai posteri una premonizione alquanto amara. Il destino al quale il teatro sembra andare incontro è quanto di più tragico potessimo prevedere. Quella a cui il teatro è destinato, è una vera e propria condanna a morte. Un’opera, quella pirandelliana, pertanto di così grande attualità.

In scena fino al 5 febbraio sul palco del teatro lidense Nino Manfredi, abbiamo avuto occasione di conversare con il regista romano Claudio Boccaccini, che ne ha realizzato la sua versione.

Potrebbe apparire una banalità; ma che in realtà non lo è. È proprio lì che si snoda, difatti, la propria vita in e per il teatro. Cos’è che l’ha spinto a questo mondo – spesso anche impervio?

Ho iniziato da spettatore. Quando avevo quindici, sedici anni conobbi una persona che faceva parte dell’organizzazione; della cosiddetta Claque che aveva biglietti gratis. Io ne approfittai e cominciai a frequentare i teatri da spettatore. Non avevo ancora l’intenzione di fare teatro. Poi, però, durante il servizio militare conobbi un attore che mi introdusse in una compagnia amatoriale friulana (dove stavamo svolgendo difatti il servizio militare) e da lì iniziò il tutto: tornato a Roma, mi iscrissi all’Accademia Scharoff. Nel frattempo facevo però il fotografo come reporter. Alla fine degli anni ’70 incontrai Giancarlo Sepe, al quale feci da assistente e rimasi folgorato dal suo modo di lavorare. Da questo incontro è partito il tutto; soprattutto l’amore per la regia.

La fotografia prima; la regia poi. Possiamo dire che fin da sempre ha manifestato una propensione più per il “dietro la macchina” che per quella in prima linea?

Si, certamente. Ciò che, però, mi appassiona particolarmente – e che si ritrova nel mio lavoro registico – sono le luci. In questo, l’allestimento de “I Giganti della montagna” mi rappresenta abbastanza. C’è un uso delle luci di un certo tipo. La luce è un elemento che mi appassiona molto e che ho anche studiato a lungo, apprendendo peraltro dal più grande illuminotecnico qual è stato Svoboda. La luce, pertanto, è una delle prime cose quando vado a lavorare ad un progetto.

Ma qual è l’avvenimento o la persona che le ha fatto capire che la regia sarebbe stata la sua strada?

Senza dubbio Giancarlo Sepe. Vedendo personalmente lavorare un regista della sua portata, ho capito che la regia fosse la cosa che più mi interessasse. Ho capito che non era semplicemente dire «entra da destra, esci da sinistra» ad un attore; ma che ci fosse molto di più: la costruzione e l’interpretazione di un testo; la capacità di trasformare un testo dalla pagina scritta alla messinscena. E questo percorso l’ho capito vedendo Sepe lavorare.

Ha messo in scena più di un centinaio di spettacoli. Qual è tra tutti, però, quello che maggiormente lo rappresenta; quello che le è particolarmente a cuore?

Ce sono diversi. Diciamo che mi sono affermato come regista, portando in scena spettacoli corali e imponenti nelle fattezze. “Anja”, da un testo di Giuseppe Manfridi, è senz’altro uno spettacolo a cui sono molto legato. Ma anche i lavori portati in scena con Francesco Pannofino come “Le opinioni di un clown”; “Il processo”. Mi vengono, poi, in mente “Delitto e Castigo”; “Romeo e Giulietta” – che ho portato tre volte in scena. Per certi aspetti anche i “Giganti della montagna” rientrano in quella categoria di coralità. Poi come non citare uno spettacolo che porto in scena da dieci anni: “La foto del Carabiniere”, storia di mio padre e Salvo D’Acquisto in cui ricopro anche il ruolo attoriale oltre che registico. È un teatro di narrazione che mi ha dato veramente tante soddisfazioni e che porto, tutt’oggi, in tutt’Italia. 

Nell’87 fonda la scuola teatrale “La stazione”, un progetto che tutt’ora porta avanti. Quanto è fondamentale per lei l’aspetto formativo in questa professione laddove si prospetta, talvolta, un panorama non propriamente professionale?

Questo, sicuramente, fa parte della degenerazione di questo periodo. Ne “I Giganti della montagna” racconto anche questo. La formazione è fondamentale. Il problema è che, quando io aprii la scuola ve ne erano soltanto tre (la Fersen; quella di Isabella Del Bianco e la mia); ora ve ne sono 95. Ecco, io ora non credo che esistano 95 corpi docenti in grado di gestire la formazione. C’è un’improvvisazione soprattutto dal punto di vista degli insegnanti. Il primo problema, quindi, è la mancanza di professionalità a livello di docenza e questo produce naturalmente una mancanza di preparazione nei giovani attori. Il fatto che, diversamente dal resto d’Europa, non vi siano delle regolamentate qualifiche poi determina a cascata un abbassamento della qualità.

Una problematica, questa, che trova – ancor prima di tutto –  le sue fondamenta nell’apparato istituzionale: e su questo Pirandello ci ha consegnato una forte premonizione.

La professione teatrale difatti andrebbe legittimata, tutelata ed anche regolamentata. Cosa che non accade! Quella di Pirandello è un’amarissima premonizione, tant’è che lo spettacolo finisce con un colpo di pistola all’arte. In questo è molto attuale!

La premonizione di Pirandello è senz’altro tragica. Crede che ci si trovi di fronte un destino irreversibile o il teatro è ancora in tempo per un cambio di rotta?

Credo che ci stiamo dirigendo verso un progressivo degrado dovuto gran parte dalla classe politica; dalla televisione anche. Arriverà un momento in cui tutto questo raggiungerà il fondo e da allora si potrà forse pensare di risollevarsi. Però siamo in una fase di discesa che ancora proseguirà. Ci sarà sicuramente un nuovo rinascimento; però ora come ora la situazione è fortemente drammatica.

Per salutarci con un pizzico di ottimismo e di buoni propositi: per qualche sera sarà ancora in scena con “I giganti della montagna”; vi sono, però, già in serbo progetti futuri?

Assolutamente! Alla fine di febbraio sarò in scena con “Una pura formalità”, tratto dal film di Tornatore. Poi proseguirò ad aprile al Teatro Belli con “Wam – ironia della morte”, uno spettacolo piccolino; ma molto interessante su Mozart. Questi, insomma, i progetti a breve scadenza.

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