C’era una volta… Ennio

L’evento è davvero straordinario. La sala è piena, non c’è un posto libero. Anzi qualcuno è seduto su piccole sedie aggiunte.

«Non si potrebbe», è la voce che fino a poco prima dell’ingresso in sala si sentiva dire al botteghino.

«La legge lo vieta, ma l’evento è straordinario e con un solo giorno di proiezione non si può rimandare la gente a casa», sussurra un signore fiaccato dal tormento della responsabilità.

L’evento è straordinario: «Soltanto oggi e in poche sale in tutta Italia», si puntualizza all’ingresso.

«La società che distribuisce il film poteva concedere qualche giorno in più», lamenta un altro spettatore.

«L’evento è straordinario perché per vedere le cose belle ce le fanno sudare, ci obbligano a rincorrerle e poi si rischia pure di tornare a casa a bocca asciutta», sintetizza il più anziano.

Tutti hanno ragione, ma nessuno sa il vero motivo per cui l’evento è davvero straordinario. E ha fatto benissimo il direttore del cinema a prendersi la responsabilità di aggiungere qualche posto a sedere, all’ultimo minuto, per non rovinare la festa a Ennio Morricone che la sera del 10 novembre, in occasione dello straordinario evento, avrebbe soffiato su 94 candeline, e magari con la tromba, il primo amore.

Il documentario di Tornatore sul maestro Morricone comincia proprio dalla tromba che papà Mario suonava discretamente e che lui prese in mano sin da piccolissimo. Poi si racconta dell’ingresso al Conservatorio, delle lezioni di composizione sotto la guida dell’immenso Goffredo Petrassi («O entro a far parte della sua classe o lascio il Conservatorio», minacciò il giovane Ennio) e prosegue con le prime attività di arrangiatore e di autore di canzoni («Se telefonando io potessi dirti addio», canterà Mina). Poi comincia la grande avventura del cinema: una carrellata di opere meravigliose, di particolari sconosciuti, uno più suggestivo dell’altro. E, film dopo film, Tornatore passa in rassegna, attraverso le testimonianze di registi, cantanti, musicisti, critici e collaboratori, l’intera vita artistica di chi ha inventato la colonna sonora del cinema moderno.

Giuseppe Tornatore ha avuto il pregio di intuire la necessità di un documentario su Morricone, quando il maestro, proprio lui, poteva narrarci la sua storia meglio di chiunque altro.

Al termine delle quasi due ore e mezzo di proiezione, l’applauso in sala scoppia unanime, ma – a dir la verità – in questo gesto di gratitudine s’è avvertita anche un po’ di malinconia. Si trattava, né più né meno, di una sfumatura sonora, una musica a due livelli: una festosa, l’altra nostalgica. Tutti avremmo voluto saperne di più; o forse tutti avremmo voluto continuare ad ascoltare le straordinarie orchestrazioni che hanno accompagnato i momenti più sereni della nostra vita: sì, perché quando si va al cinema e si gusta la visione di un bel film, questo è senza dubbio un momento di serenità. Se poi le musiche del film le ha fatte Ennio Morricone allora è ancora più piacevole, tanto che spesso, dopo anni e anni ci si ricorda bene della musica e meno bene del film.

Come Tornatore non ha potuto illustrare l’intera vita del maestro, malgrado un serratissimo montaggio sia delle immagini che delle interviste, così il sottoscritto non può certamente riportare tutto quel che il documentario ha raccontato.

C’è un episodio nella vita del giovane Ennio che a mio parere è stato fondamentale, quanto l’aver studiato con Petrassi: partecipò a un festival di musicisti assai bizzarri, oggi si direbbe un po’ «fuori di testa». Compositori che sperimentavano e sviluppavano l’aspetto teatrale dell’esecuzione musicale: un gruppo di artisti che riproducevano sonorità facendo vibrare qualunque oggetto senza mai confezionare una melodia. Non si può certamente parlare di melodia quando si sente il ticchettio di una macchina da scrivere, o lo schianto di un piatto in terra, o lo scroscio dell’acqua versata in una bacinella di metallo. Ma quest’esperienza moltiplicò le vedute di Morricone sugli orizzonti infiniti che i rumori potevano raggiungere, anche a discapito della melodia, ma, se ben accordati con le immagini, il risultato è di sicuro effetto.

Si dice, infatti, nel documentario che Morricone non amasse troppo la melodia, ma poi si dice anche il contrario. Così si ritorna a una delle tante definizioni dell’arte che è autentica arte solo quando è contraria a se stessa. Era un artista Ennio Morricone? Certo che lo era, ma lui non si sentiva tale, anzi soffriva di questo perché i suoi compagni di Conservatorio, di quel Conservatorio di prima della guerra, praticavano una musica molto più alta, molto più intellettuale, come spiega il maestro Petrassi. Ennio invece si dedicava più modestamente agli arrangiamenti per le «canzonette» di Edoardo Vianello (A-a-a-a-abbronzatissima sotto i raggi del sole…), ma dentro di sé gli studi di Bach e Frescobaldi, di Beethoven e del contemporaneo Stravinskij stavano modellando il suo estro.

Grazie a Bach e a quei «musicisti pazzi» del festival tedesco, nasce la musica da film di Ennio Morricone. Debutta nel 1961 con «Il federale», regia di Salce e dopo altre esperienze arriva «Il successo», ma è soltanto il film di Dino Risi; perché il primo grande successo di Ennio è del 1964: regia di Sergio Leone, il film è «Per un pugno di dollari». Comincia la collaborazione con il regista che più di ogni altro ha esaltato le sue capacità di musicista. Leone lasciava che sperimentasse nuove possibilità: dal fischio alla campana, dai legni all’imitazione del coyote. Sonorità che hanno fatto la storia del western all’italiana e non soltanto.

«Alessa’, vieni a fatte st’altra fischiatina», disse Ennio, l’anno successivo, all’amico Alessandroni, appena ebbe trovato il motivo e scritto poche note sul pentagramma di «Per qualche dollaro in più».

«Sono sempre due, tre, al massimo quattro note, quelle che servono per fare una colonna sonora», lo dice il maestro Morricone, contandole sulle dita di una mano mentre con la bocca ne imita il suono. Effettivamente sembra così, ma poi c’è l’orchestrazione dove avvengono i miracoli.

Altri miracoli avvenivano anche in sala di proiezione. Gillo Pontecorvo ricorda di averlo invitato a visionare «La battaglia di Algeri», pellicola appena montata ma ancora priva del sonoro. «Dopo due minuti – racconta il regista – Ennio s’era addormentato. Si risvegliò alla fine del film. Mi disse che aveva capito tutto. Dopo pochi giorni mi chiamò per farmi ascoltare le musiche: erano perfette».

Joan Baez, commossa, loda la ballata di Sacco e Vanzetti, «era cominciata come una canzone popolare; è diventato un inno».

Ci sono anche voci straniere nel documentario e sono le più emozionate ed emozionanti: Bruce Springsteen, Quincy Jones, tutti pieni di un’ammirazione infinita, verso il maestro. Pat Metheny: «È il più grande musicista e orchestratore moderno: riconosce tra gli strumenti orchestrali anche la validità della chitarra, pure quella elettrica. È un genio».

Il 1969 è l’anno del cambiamento. Due film, entrambi con Florinda Bolkan (ma è solo un caso), segnano la svolta nella produzione del maestro: si cambia musica. Per Metti, una sera a cena di Patroni Griffi, inventa una base a ritmo di samba, un motivo ondulante ma suadente. «Per la verità non mi piaceva molto. Dissi al regista: “Questa non la mettere, te ne faccio un’altra”. Peppino mi rispose: “Ma tu sei pazzo!”. Aveva ragione Peppino». Per «Indagine di un cittadino al sopra di ogni sospetto» di Petri, dovendo evocare sensazioni di incertezza e squilibrio, la musica è chiaramente saltellante e la frase sembra non finita, invece, nell’insieme la melodia è esemplare e assolutamente innovativa.

Elio Petri l’aveva conosciuto l’anno precedente per «Un tranquillo posto della campagna» e, prima ancora di cominciare la collaborazione, gli disse: «Sappi che questo sarà il primo e ultimo film che faremo insieme». È risaputo che la gente dello spettacolo è sempre pronta a rimangiarsi le frasi dette: Petri lo chiamò altre quattro volte!

Fu l’amicizia con Sergio Leone a procurargli enormi soddisfazioni. Era lui, il regista, ad affermare che i suoi film senza la musica di Ennio sarebbero stati incompleti. «C’era una volta il west» senza la fisarmonica di Charles Bronson non sarebbe lo stesso film; anche «Giù la testa» senza il coro che canta quell’indecifrabile sciòn-sciòn, smuoverebbe tutt’altre emozioni. Tuttavia all’improvviso Leone cambia tattica d’approccio per la sua nuova creazione: racconta l’idea di un film e già ne vorrebbe ascoltare la musica.

«Ma se non c’è ancora nulla di girato?», dice Ennio.

«Veramente non c’è neanche molto di scritto», ammette il regista.

«E che ti posso far sentire?»

«Non so, qualcosa che hai nel cassetto», brancola il regista.

Morricone, qualche anno prima, volò negli Stati Uniti, sul set di Zeffirelli, «Amore senza fine», per fare la colonna sonora, ma a metà dell’opera ritirò tutto perché il regista fiorentino si impuntò su un brano di un altro autore già registrato, ed Ennio non ammetteva che altri musicisti si cimentassero là dove ci fosse la sua firma. Per Zeffirelli aveva composto un tema molto bello, non utilizzato, e lo fece ascoltare a Leone. Da lì cominciò a prendere vita «C’era una volta in America»: con Ennio al pianoforte che suonava e Sergio accanto con la testa affondata tra le braccia, come se volesse nascondere già la sua commozione che precedeva quella di tutti noi.

«C’era una volta in America», a proposito di musica, riserva un’altra particolarità che in parte è conseguenza della premessa fatta. Probabilmente Leone per proseguire la sceneggiatura aveva bisogno dell’ambientazione sentimentale che soltanto la musica può creare e quando cominciarono le riprese propose a De Niro, a Woods, alla McGovern e a molti altri attori, compresa la giovanissima Connelly, di girare le scene con il sottofondo musicale affinché la recitazione si accordasse con le note struggenti di Ennio Morricone.

«Ci vuole il flauto di Pan, ti prego, sento che è giusto il suono del flauto di Pan, in questo film», insisteva il regista.

«Non ti preoccupare. Arriverà la scena in cui metteremo il flauto di Pan».

E il flauto di Pan, strumento del mito d’amore, prova ad avvertire a tempo il piccolo Dominic dell’imminente pericolo, accompagnandolo nella fuga che si concluderà con uno sparo, o forse con un bambino che correndo è soltanto scivolato sotto il ponte di Manhattan.

Si potrebbe continuare a raccontare all’infinito di questo documentario che ha la struttura di un grande romanzo musicale. In questa cronaca senza musica mancano all’appello ancora altri grandissimi lungometraggi: «Mission», «Bugsy», «Nuovo cinema Paradiso», «Il pianista sull’oceano» il cui protagonista era lo specchio nel quale Morricone poteva identificarsi, manca l’incontro con Tornatore, che è l’autore di questo magnifico documento sull’uomo che ha inventato il canto del Cinema. E manca «The hateful eight», il western di Tarantino che gli valse l’Oscar dopo cinque nomination e l’Oscar alla carriera. Ma il riconoscimento più atteso, Ennio lo ricevette nelle parole di una lettera di un suo compagno di conservatorio, il musicista Boris Porena, che a nome di tutti i suoi colleghi che l’avevano sempre considerato un ottimo compositore ma di una musica di livello inferiore rispetto a quella che praticavano loro, chiese scusa, inchinandosi alla genialità di Ennio, alla sua sensibilità musicale capace di regalare ad ogni immagine un suono che indicasse diversi piani di lettura, dai più sentimentali ai più dotti. Perché – non bisogna mai dimenticare la lezione del maestro Petrassi – la musica è un’arte soprattutto intellettuale.