La pièce sembra avere inizio prima di iniziare: le luci sono ancora accese quando il volto di un’anziana donna compare sull’enorme schermo al di sopra della scena. Il suo sguardo è un enigma, geroglifico che assorbe e dirotta l’attenzione del pubblico sul filo di movimenti impercettibili.
Presentato in prima nazionale al Teatro Argentina di Roma nell’ambito del Roma Europa Festival 2022, “Grief & Beauty“ rappresenta l’ultimo lavoro del regista svizzero Milo Rau, il secondo capitolo della “Trilogy of Private Life” iniziata con “Familie”.
Una scena vuota, ordinata, articolata su una tripartizione di stanze: ai suoi lati i personaggi sembrano già prendere vita, in penombra, sulla fila di sedie alla destra del palco. Ma è dal lato opposto che il suono di un violino invade la sala: dall’entrée malinconica di Clémence Clarysse scaturisce il racconto.
“Jhoanna adorava la musica classica”
Una donna, Jhoanna, e il suo addio alla vita, si fanno elemento centripeto e punto di rotazione per quattro vite, apparentemente scisse l’una dall’altra. Quattro storie, che dopo la scelta cruciale di quella donna, sembrano essersi ribaltate e intersecate.
La scelta del frammento per restituire il vuoto dell’abbandono
La narrazione è volutamente spezzata, in essa i frammenti della storia di ognuno vanno ad accavallarsi, divenendo l’uno lo spunto per l’origine dell’altro: in un primo momento gli aneddoti sono aneddoti e le storie sono storie, subito dopo sembrano inserirsi in un unico insieme organico, quello dell’abbandono.
Se quella di Jhoanna è la dichiarata, estrema richiesta di abbandono della propria esistenza; quelli dei personaggi sono interrogativi aperti. Attraverso il racconto tentano di giungere all’origine del loro personale abbandono.
Declinato così nell’ampio spettro delle possibilità, l’abbandono assume le sembianze di un enorme buco nero, del mistero profondo circa ciò che precede e segue l’esistenza. Del mistero che invade la morte e che offre spiraglio di sé anche nella vita, nel contesto della micro-morte e del micro-dolore personale.
Il mio abbandono, il suo abbandono: l’attore che interpreta sé stesso
Ciò che ha luogo sulla scena per Arne De Tremerie, Anne Deylgat, Princess Isatu Hassan Bangura e Gustaaf Smans, non è frutto di fantasia scenica, ma di un vissuto reale, di un dolore accaduto nel reale, affrontato singolarmente e poi condiviso, talvolta sdrammatizzato nell’accadimento scenico.
Arne finge la morte quando da bambino interpreta la fine di “Le petit prince” di Antoine de Saint-Exupéry, per poi riviverla nella visione reale di una madre che ricorre all’alcool per fuggire la malattia. Anne vive la morte nell’abbandono di un’amore troppo giovane, poi scopre il teatro. Princess viene dalla Sierra Leone e viene spezzata dalla convinzione di una famiglia che non esiste, e di un padre che per dolore, ha smesso di guardarla come figlia. Gustaaf ha scelto di essere attore a sessant’anni, ha vissuto la morte sul suo corpo e sul corpo di chi lo ha lasciato, ma la morte più atroce è stata quella di sua figlia.
Il teatro si fonde con la vita e con la morte per essere narrato in capitoli come una storia. Una storia autentica che sospende la finzione.
Il macro-schermo come scelta di simultaneità
Strumento utile per l’inserimento dei sovra- titoli in uno spettacolo in lingua originale, risultato della precisione artistica di Moritz Von Dungern, ma anche significativa intenzione registica, quella del macro-schermo è veicolo di una precisa scelta scenica: quella della simultaneità.
Nella parallela visione di ciò che accade sul palco e ciò che accade nello schermo, la narrazione si fa tridimensionale aprendo uno spiraglio sull’io che parla, sull’io che si rivolge ad un pubblico, consapevole di essere ascoltato, e sull’io che prende parte parallelamente alla rappresentazione teatrale.
Eccezione a tale scelta di tridimensionalità è il racconto di Jhoanna, un racconto che proviene dal passato e che si fa testimonianza, ora gioiosa ora cruda, del percorso verso una morte consapevole: una fine forse edulcorata, forse dolce, forse determinata da una piena e lucida coscienza del proprio esistere, ma frutto di una scelta.
“Desiderava parlare apertamente della morte, farla vedere”
Ciò che si nasconde dietro questa scelta appartiene al mistero, al buco nero, alla triplice ipotesi del vedere la morte come riposo, come inizio o come voragine.