“Volevo nascondermi”, il film di Giorgio Diritti, è tornato in sala il 19 agosto dopo aver fatto capolino in alcune sale a fine febbraio, prima che tutto si fermasse causa Covid. L’opera con protagonista Elio Germano narra la vita dannata, dall’infanzia alla morte, del pittore Antonio Ligabue.
Il film inizia mettendo in scena un intreccio visivo: prima un adulto Ligabue dallo sguardo assente, poi i flashback dell’infanzia. Il “Tony”, proveniente da famiglia italiana, trascorre la sua gioventù in una famiglia di svizzeri tedeschi. Non è un bambino normale, è affetto da disturbi psico-fisici, che lo portano all’autoisolamento, a soffrire problemi relazionali fino a essere bullizzato. Durante i primi del ‘900 cambia diverse scuole e si trasferisce con la sua famiglia adottiva di città in città, anche per via della precaria situazione economica. La sua condizione si aggrava quando, ormai diciottenne, viene ricoverato in un ospedale psichiatrico. Due anni dopo, per aver aggredito la madre, su denuncia della stessa, viene espulso dalla Svizzera. Il giovane si ritrova quindi a Gualtieri, città emiliana, nonché paese del padrino Laccabue. Durante questi anni vive una vita solitaria, nomade, tirando avanti con lavoretti precari. La sua condizione mentale non gli permette di esprimersi, di relazionarsi. Cerca di tornare dalla sua famiglia in Svizzera ma viene trovato e ricondotto a Gualtieri, dove viene aiutato dall’Ospizio di Mendicità Carri. Nella sua solitudine riprende a disegnare, come faceva ai tempi della scuola, e a dipingere. A quasi trent’anni l’incontro con lo scultore Mazzacurati, che ne scopre il talento genuino, porta il Ligabue a decidere di dedicarsi totalmente alla pittura e alla scultura.
Uno degli attori di maggior talento nel panorama artistico italiano si cuce addosso un personaggio di difficile interpretazione, un artista dannato e “malato”, incompreso dal mondo che lo circonda. Elio Germano, che grazie a questo film ha vinto “l’Orso d’argento” come miglior attore al Festival Internazionale del Cinema di Berlino, attraverso un lavoro meticoloso, porta sul grande schermo, come già fece Flavio Bucci nello sceneggiato “Ligabue” del ‘77, la vita del “pittore pazzo”. Il film si concentra sulla natura di Antonio Ligabue, sulla sua testa, la sua mente. Come ragionava quando dipingeva? Come esprimeva i suoi pensieri? Nei suoi dipinti, i colori, la natura, gli animali la facevano da padroni. Germano ci mostra i suoi movimenti, le sue facce e anche la sua voce. Romano di nascita, l’attore si destreggia perfettamente, cimentandosi in una lingua emiliana quasi antica, un dialetto di difficile comprensione da aver bisogno del sottotitolato.
La sceneggiatura vuole scavare nella psiche dell’artista, rivelare la sua identità, mettere a nudo i suoi problemi in contrapposizione alla sua grande proliferazione pittorica e scultorea. La domanda che ci si pone è come sia possibile che un uomo con così grandi difficoltà nel relazionarsi socialmente, che ha vissuto diversi periodi della sua vita in ospedali psichiatrici, che riusciva a stento ad esprimersi a parole, potesse invece riversare su tela tutta la sua interiorità, le sue emozioni? Da dove derivano questi colori in una vita apparentemente così buia? Il film analizza come Ligabue fosse talmente innamorato della natura, degli animali, al punto da diventare uno di loro per realizzarne un dipinto. Si immedesimava nelle bestie, parlava con loro, si muoveva come loro per cercare di comprenderle. Molto probabilmente nella sua esistenza si è sentito più un animale che non una persona, un umano. Non era pazzo, era solamente istintivo e come un animale faceva più appello a questa caratteristica piuttosto che alla ragione. In più, però, una grande sensibilità gli permetteva di prendere una tavolozza e dei colori e mettersi a lavoro.
Vediamo nel film un Ligabue dapprima oppresso dalla sua malattia fisica, dal suo stato mentale, abbandonato a sé stesso. Il suo sviluppo però accelera esponenzialmente, non tanto per quanto riguarda i suoi problemi psichici, non è una storia a lieto fine. Il Tony cresce quando si accorge del suo talento, quando prende coscienza che finalmente può parlare al mondo come mai aveva pensato di fare. Fino a capire, in qualche modo, anche se in età avanzata, che quello che fa ha un grande valore e che viene persino riconosciuto dal pubblico e dalla critica.
“Volevo nascondermi” è una storia toccante di un grande artista, che nonostante una vita oscura e sofferente all’apparenza, è riuscito con la sua genuinità e con il suo istinto quasi animalesco a lasciare nel mondo dell’arte un’esplosione di vita e di colori. Una bellissima fotografia rurale delle campagne emiliane fa da eco ai colori del pittore e la colonna sonora originale avvolge la narrazione intima della vita del Ligabue.