La realtà la puoi cambiare solo attraverso la finzione
Al Teatro Biondo con le prove della Concessione del telefono, in scena al Piccolo Teatro di Milano dal 30 gennaio al 4 febbraio, Valerio Santi racconta del suo Teatro, il Teatro dell’Istrione a Catania e del suo lavoro come attore, regista, drammaturgo, scenografo e direttore artistico.
Valerio, raccontaci un po’ del tuo lavoro, del tuo teatro – Il teatro dell’istrione – che nasce a Catania e di cui sei stato fondatore nel 2008.
Tutto nasce dal fatto che ho rilevato parte di una struttura che è appartenuta alla mia famiglia, all’interno della quale lavorava con un’ associazione. Quando loro la lasciarono io ne rilevai il cortile, che era già stato chiuso precedentemente. Mi venne l’idea di farne una sala teatrale. L’idea nasce dal fatto che, da certi punti di vista, questo piccolo spazio ti permetteva di fare un teatro quasi cinematografico. Insieme al mio maestro di scenografia Carmelo Miano, è nata l’idea di scenografarlo proprio come un cortile siciliano, in modo da rendere più facile l’abbattimento della quarta parete. Se ci pensiamo in Sicilia il cortile è teatro per eccellenza. Nel 2006 rappresentai la mia prima commedia, ’U Fujiri è virgogna ma è salvamentu ‘i vita al Metropolitan di Catania. Lo spettacolo era ambientato all’interno di un tipico cortile siciliano, il “Cortile Sant’Alfio, anche da questo nasce l’idea di scenografare in quel modo il teatro dell’ Istrione. Fu il mio esordio, ancora prima di frequentare la scuola dello Stabile di Catania. L’Istrione è stato diretto, per i primi quattro anni, dal Prof.re Miano. Io ero giovanissimo e contemporaneamente studiavo allo Stabile di Catania. Nel corso della mia formazione avevo il teatro aperto, all’interno del quale giravano compagnie amatoriali. Cominciai ad occuparmi delle scene, della fonica, dei costumi, in maniera collaterale alla scuola. Mi feci un bagaglio di esperienze a 360° su tutti gli ambiti teatrali, tant’è che poi alla fine il teatro dell’Istrione fondamentalmente … sono io.
La parola Istrione da dove deriva?
Se devo essere sincero non ricordo, forse mi è stata suggerita da un collega. Solo dopo averlo istituito scoprì che a Catania era già esistito un teatro Istrione, intorno agli anni ’80, fondato da Gianni Scuto, Filippo Aricò, Lucio Volino e Concetto Venti, quest’ultimo collabora con me da parecchi anni. Fu proprio Venti a rivelarmi che Catania aveva già avuto un teatro Istrione e devo dire che questo nome mi ha portato fortuna. È un po’ quello che sono diventato anche io. Uno degli esempi lampanti è proprio questo spettacolo, La concessione del telefono (in prova al Teatro Biondo di Palermo). Nel mio lavoro sono abituato a trasformarmi molto velocemente e ad interpretare ruoli da anziano. Questa cosa, i primi tempi, fu criticata un po’ da alcuni colleghi. Nonostante non mi appartenga a livello cronologico, per l’età, ho una visione del teatro, per quanto moderna, antica. Ho la concezione che non tutti i personaggi possano avere la mia faccia o la mia voce. Mentre oggi, per molti attori, il pensiero è quello di essere riconosciuti dal pubblico. Secondo me proprio quando non ti riconoscono vuol dire che hai lavorato bene, perché il nostro mestiere non è essere riconosciuti ma portare lo spettatore in un contesto totalmente avulso dalla realtà.
Ha ancora senso nel teatro contemporaneo e soprattutto di ricerca abbattere la quarta parete e ridurre il confine tra il pubblico e la scena e come sosteneva Pirandello creare disorientamento, con l’intento di creare una confusione continua tra realtà e finzione, che investe direttamente lo spettatore ?
Oggi più che mai. Trovandoci in una condizione di vita dove non si distingue più la realtà dalla finzione, dove tutti sanno tutto e qualsiasi informazione la leggo su Internet, creare una condizione teatrale dove ancora il teatro sia un mezzo di comunicazione forte, reale, credibile e dove si può creare uno scambio del genere, un continuo parallelismo tra finzione e realtà, diventa fondamentale.
La storia del tuo teatro dell’Istrione, soprattutto quella degli ultimi anni di attività, è stata molto travagliata a cominciare dal rapporto con il proprietario delle mura e con le Istituzioni. Quali sono i progetti per questo luogo originale, che ha generato, attraverso un attento lavoro sul territorio, un presidio importante per la cultura e la tradizione nella città di Catania?
I progetti sono sempre gli stessi, ovvero quello di continuare la mia attività e di trovare uno spazio più funzionale. Sono anni che cerco altri spazi, nuove collaborazioni, crescendo l’attività crescono anche le pretese. Senti che hai bisogno di qualcosa in più. Il mio essere artista mi porta a voler sperimentare determinate cose, pur andando contro quello che è il valore imprenditoriale, perché la Direzione Artistica e quella operativa, sono entrambe sulle mie spalle. È un po’ come lo scienziato che deve decidere cosa fare davanti alla bomba atomica, porta avanti lo sviluppo o ha un senso di coscienza che gli dice che sta facendo qualcosa di sbagliato? Ho sempre fatto un cartellone abbastanza variegato, c’è sempre stata una ricerca di titoli molto accurata. Ho il rispetto totale per questo mestiere, io per primo salgo sul palcoscenico e mi confronto quotidianamente con le frustrazioni e i problemi di un attore, che conosco benissimo. Non ho finanziamenti pubblici e quando produco uno spettacolo lo faccio con i mezzi che ho. Lavoro con la massima onestà, trasparenza e serietà. Poi se arrivo stremato allo spettacolo, perché sono senza soldi, è un problema mio.
Nonostante lo spazio piccolo ci siamo cimentati in cose veramente particolari come ad esempio Rosmersholm di Ipsen o Copenhagen di Michael Frayn, con tanto di concessione straordinaria dalla Compagnia Orsini. Quando vedi che il pubblico di una città, come nel caso di Copenhagen, si alza in piedi per tre sere di fila su uno spettacolo che per due ore e mezza ti parla di fisica quantistica e nucleare, vuol dire che stai seminando bene. Non è vero che il pubblico vuole solo ridere. Quando ci sono operazioni che toccano la coscienza, che in qualche modo ti fanno provare delle emozioni, non è più importante quale emozione sia, se il riso o altro, provi delle cose ed esci dalla sala arricchito, con alcuni punti di domanda. Questa è la cosa che vorrei continuare a portare avanti.
Le nuove generazioni, a volte non vanno a teatro perché è un mezzo che conoscono poco, che è sempre più distante dal quotidiano. Ormai abituati a piccoli video, non conoscono la differenza tra dramma, comico o Stand-up comedy. Purtroppo non si è puntato a fare un ricambio generazionale di pubblico, e i teatri non puntano a fare un cambio generazionale neanche di attori.
Fin dalle sue origini il teatro è sempre stato il “luogo della comunità”. Storicamente ha segnato il progresso sociale delle civiltà mettendo in scena i drammi e le contraddizioni universali dell’uomo. Per secoli è stato così. Che cosa è cambiato oggi rispetto al passato soprattutto dopo la pandemia?
Prima il teatro era la prima fonte di sfogo all’interno di una società. All’epoca, quando c’erano spettacoli teatrali, di rivista, o spettacoli di pupi siciliani la gente interagiva. Con l’avvento della televisione questo è andato ovviamente a scemare e negli ultimi anni, con l’avvento delle varie piattaforme social , questo è peggiorato. Il Covid ha portato una fattura ancora più grossa, perché ha stoppato il mondo per due anni interi. Questo ha messo paura per alcuni e per altri a creato nuove abitudini. Anche con il Teatro dell’Istrione è successo. Dopo il Covid da circa 200 abbonati ne abbiamo avuti 80. La pandemia ha cambiato molto la società, in parte l’ ha incattivita e in parte la resa più futile. Il teatro è una delle forme artistiche più a rischio in assoluto perché ha bisogno del pubblico del confronto. Il pittore dipinge, lo scultore scolpisce, l’attore se non ha pubblico che cosa può fare? Oggi stiamo andando incontro a un altro problema; l’intelligenza artificiale. Tra poco non riconosceremo più quello che è vero da quello che non è, questo è un rischio altissimo.Immaginiamo quello che può succedere in futuro.
Ma la finzione può incidere più della realtà sulle cose? Che responsabilità ha l’attore e il regista nel raccontare una storia attraverso la finzione?
È importante perché la realtà tu non la puoi cambiare, tranne che con la finzione. Puoi addolcire quello che non è così dolce, farlo arrivare in un determinato modo, puoi cambiare il punto di vista di un racconto, mentre nella realtà lo vivi con il tuo punto di vista. Questo è il compito di un attore, ed è anche il compito del teatro. Cambiare il punto di vista dello spettatore per risvegliarne la coscienza, per aprire degli spiragli chiusi dalla società, dalle strutture, da tutto quello che ci circonda.
Oggi ti trovi qui a Palermo, al Teatro Biondo con le prove dello spettacolo La concessione del telefono che debutterà a Milano, al Piccolo. Pensi che verrà replicato nuovamente anche in Sicilia?
Me lo auguro, pure essendo uno spettacolo che ha avuto già il suo giro in Sicilia so già che verrà replicato quest’anno a Modica e ad Agrigento. Sono molto contento dei compagni di scena, dei tecnici. Con il regista Giuseppe Dipasquale lavoriamo insieme da anni, oltre ad essere stato un suo allievo, sa prendermi e sa dove portarmi, c’è un bel rapporto lavorativo.
Qual è la tua esperienza come professionista di uomo di teatro contemporaneo, dove gli spazi ricerca ma anche le idee fanno fatica ad emergere?
Armato di tanta buona volontà mi ritrovo spesso a scontrarmi con le istituzioni, con i teatri più grandi, con la concorrenza. È difficile cercare di sopravvivere con le proprie forze, del resto poi entrare in circuiti istituzionali ti scompensa da altri lati. Per avere finanziamenti devi fare giornate lavorative e devi avere pubblico, poi i finanziamenti non ti arrivano subito e basta che c’è anche solo un’irregolarità, o qualcuno fa un ricorso, che si blocca tutto! Personalmente la mia esperienza come professionista e uomo di teatro mi ha portato a scontrarmi con poteri forti e tanta ignoranza, tanta burocrazia … e poi magari vedermi superato. Perché la meritocrazia ormai ha un valore, non dico pari a zero, ma è in secondo piano. Ogni tanto vorrei gettare la spugna. Già adesso, che sono mesi che non faccio niente nel mio teatro, sto provando una sofferenza incredibile. Io ho un’ idea di teatro che è antica, ho sempre cercato di creare una compagnia che fosse anche una famiglia, un po’ alla de Filippo.
Citando uno tra i tuoi spettacoli, Copenaghen, « Bisogna calare il sipario su certi esperimenti, far calare il silenzio, o prima o poi verrà il tempo in cui tutti i nostri figli saranno ridotti in cenere? O c’è ancora speranza? […] anche quando i fantasmi saranno scomparsi, cosa ne rimarrà del nostro beato mondo? Del nostro devastato mondo? Questo passaggio mi ha fatto pensare a un’idea di figli come spettatori, ma quanto questa madre “teatro” sta nutrendo i propri figli, vista la situazione di cronaca attuale, storica e politica, di guerra? Quanto il teatro può ancora fare?
Il teatro madre non sta nutrendo affatto i suoi figli ma li sta confondendo. Non gli sta dando un’alimentazione sana. Ovviamente questo rende ancora più confuso il pubblico. Questo dovrebbe partire dalle strutture istituzionali. Il teatro è un mezzo di comunicazione e deve essere un mezzo di denuncia, difficile da censurare. Dobbiamo dire, attraverso il teatro, le cose come stanno perché il teatro serve a risvegliare le coscienze.
Recentemente a Catania, Leo Gullotta e Fabio Grossi hanno messo in scena In ogni vita la pioggia deve cadere, uno spettacolo che parlava di omosessualità. Dopo i primi cinque minuti non fai più caso che è una coppia di uomini, non ha importanza, perché trattano di un tema comune a tutti noi; che cosa succede ad una coppia di fatto non riconosciuta nei momenti di difficoltà. Nessuno dei due coniugi ha potere sull’altro. Ma chi ne parla di queste cose?
Un altro esempio è stato Misura per misura, che abbiamo realizzato nel 2019 al Teatro dell’Istrione. Quest’opera, che Shakespeare ha scritto centinaia di anni fa, mette al centro il tema dell’ abuso di potere. un potere che è marcio. Ma come lo rappresenti oggi? Noi abbiamo pensato ad una regia contemporanea e ad una scenografia fatta con le griglie, come se fosse un carcere. Questo rappresenta la prigionia della società che ci circonda tutti. I costumi erano in stile dark, stile punk, e attraverso il nero abbiamo voluto rappresentare il marciume della società perversa. La lingua non viene toccata, il testo non viene alterato, e il pubblico si rivede nella messa in scena.
Stessa cosa con Copenhagen, ti rendi conto che la storia è stata determinata da un calcolo. Quindi ti domandi, e se quel calcolo l’avesse fatto giusto Eisenberg, cosa sarebbe successo?
Tu pensi che il teatro possa essere un mezzo attraverso il quale il pubblico, o la società, possa ricordare?
Io me lo auguro, perché oggi noi andiamo incontro a una società che non avrà più ricordi, complici telefonini. Tutte queste foto, non esiste più il supporto digitale, non esistono più il DVD e CD. Noi stiamo cancellando pagine di storia, invece di scriverle, questa cosa è terribile. Quindi io mi auguro che il teatro possa servire a ricordare, possa servire a dire alle persone qualcosa. Però il teatro, per continuare la sua operazione, ha bisogno di stare in vita. Le stesse persone che dovrebbero tenerlo in vita sono, in fondo sono le stesse che lo stanno facendo morire.
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Valerio Santi sarà in scena Valerio dal 18 al 28 Aprile con “Erano tutti i miei figli” di Arthur Miller con Mariano e Ruben Regillo, Cicci Rossini e Silvia Siravo, al Teatro Brancati di Catania e al comunale di Siracusa, saranno diretti da Giuseppe Dipasquale. Dal 12 al 14 aprile con “La concessione del telefono” a Modica e Agrigento. Il 14 marzo sarà in scena al Teatro Brancati con “sogno di una notte di mezza sbornia” di Eduardo de Filippo, la regia di Armando Pugliese. Dal 2 al 19 maggio “troppo traffico ppi nenti” di Camilleri e Dipasquale con la regia di Dipasquale, e dal 15 al 26 maggio sarà in scena nell’ Amenanos Festival al Teatro Greco Romano di Catania con “Antigone e sette contro Tebe” diretti entrami da Cinzia Maccagnano.
Foto di copertina © Antonio Parrinello