“Nome in codice: Romeo”: la recensione

Un’ambientazione scarna, pochi oggetti, cinque attori e una storia potentissima. Il 22 marzo il teatro Argot ha dato il via alla rassegna internazionale di drammaturgia contemporanea “In Altre Parole”, che si è snodata in sei serate streaming su YouTube (22-27 marzo), cominciando con la mise en éspace di “Nome in codice: Romeo”. Il testo viene dalla Slovacchia, precisamente dalla fantasia di uno degli sceneggiatori più rappresentati in patria e alla quinta volta qui in Italia, Viliam Klimáček.

L’opera ha pochi attori ma tantissimi protagonisti. Il primo è sicuramente la famiglia. Ambientato nel 1984, una chiara citazione all’omonimo libro di Orwell, conosciamo subito padre, madre e figlio. Una famiglia perseguitata dal regime comunista dell’allora Cecoslovacchia, che ha declassato il padre Michal (Paolo Giovannucci) da importante produttore cinematografico a più umile archivista. La loro vita non è semplice, la paura del regime che incombe su di loro come nella più spietata logica del Panopticon di Bentham, li rende estremamente sospettosi di chiunque e le loro amicizie sono ormai un lontano ricordo. Neanche il compleanno della madre (Bianca Nappi) riesce a rasserenare l’atmosfera, a causa della preoccupante rivelazione del figlio (Matteo Cecchi). Per fare colpo su una ragazza, durante una cena, ha parlato di fronte ai compagni di corso del manoscritto segreto del nonno, il libro proibito di uno dei dissidenti più censurati del regime. La giovane incoscienza del ragazzo rischia di mettere in pericolo tutta la famiglia.

L’altro protagonista è la Storia. La storia vera, quella che l’autore narra attraverso il dramma familiare messo in scena. Nel periodo della normalizzazione, lo stato continuava a entrare nella vita delle persone vietando libri, musica e film occidentali. Gli intellettuali erano perseguitati, non vi era alcuna circolazione di un pensiero autonomo e non propagandistico e l’unico metodo per spargere il seme della cultura era attraverso la riproduzione e distribuzione clandestina dei testi, il fenomeno sociale denominato Samizdat. Klimáček attraverso il suo lavoro e le sue parole, racconta il periodo nero della cultura cecoslovacca. I libri portati dall’estero venivano copiati a macchina e ridistribuiti. Il governo ispezionava case, alloggi, appartamenti alla ricerca dei manoscritti che, molte volte, venivano divisi in case diverse in modo che ogni parte potesse essere nascosta più facilmente. Lo sceneggiatore, intervenuto insieme alla curatrice Nora Venturini per presentare la serata, ha raccontato di come gli anni ‘80 siano stati estremamente bui per la condizione psicologica dei cittadini. Non hanno vissuto gli sconvolgimenti del periodo sovietico di Stalin, con le purghe, le liquidazioni fisiche e le pene capitali, ma è stato un logoramento lento, uno stillicidio della cultura e della vita intellettuale, della libertà individuale, che ha portato molto spesso al suicidio.

L’ultimo protagonista è l’autore, Klimáček. La storia narrata nel testo ha molti punti in comune con la sua esperienza e la sua vita. Ha scelto 1984 come data in cui ambientare la storia perché era l’anno in cui aveva prestato servizio come medico militare. Come il personaggio del figlio, anche lui in quegli anni era studente di medicina all’università. Il racconto della cultura censurata e martoriata dal regime è per lui fondamentale, come scrittore e sceneggiatore vuole essere testimone di un momento storico in cui la libertà di creare e dar forma al pensiero non era scontato come lo è ora.

Nonostante il difficile contesto in cui l’opera è ambientata, la forza risiede anche nel valore tragicomico con cui i personaggi vivono le proprie vite. Riescono a cavarsela con ironia e sarcasmo anche nei momenti drammatici, e l’umorismo traspare proprio quando i protagonisti cercano di alzare il loro onore compiendo, però, delle azioni dal risultato comico.

La lettura drammatizzata del testo è intensa e affascinante. Gli attori, impeccabili, ci guidano verso un tempo non lontano, quando la libertà di cultura era solo un’utopia.