MEIN KAMPF KABARETT AL De Servi: La recensione

di Laura Dotta Rosso

Sembra di assistere ad uno spin off della vita del personaggio più studiato della storia: Adolf Hitler; perchè “se non si riesce ad andare oltre l’inizio, bisogna andare prima”. L’immagine che tutti noi conosciamo con i baffetti neri, basso, il volto rigido e la divisa con la svastica, dobbiamo essere disposti ad accantonarla per un attimo. Siamo di fronte ad un giovane ragazzo squattrinato che si ritrova a soggiornale in un ostello (o come viene chiamato nello spettacolo “asilo per senzatetto”) insieme ad altri due uomini ebrei: Lobkowitz e Herzl.

A Vienna non c’è libertà sessuale o politica e Lobkowitz, sbucciando patate, e Herz, insediando il dubbio in ogni frase, riescono a ridere, riflettere, a cercare una definizione per il concetto di straniero, ad incoraggiare il nuovo arrivato che vuole sostenere l’esame di ammissione all’accademia delle belle arti. Nella rassegna teatrale “I fuoriclasse” organizzata dal Teatro dè Servi dal lunedì al mercoledì sera, viene presentato “Mein kampf kabarett” di George Tabori con la regia di Nicola Alberto Orofino; questo spettacolo già rappresentato a fine febbraio a Catania, fa il suo debutto a Roma, è in scena dal 4 al 6 novembre.

Nessun elemento di questo progetto risulta già visto o banale:le lunghe lenzuola appese per tutte le pareti del palcoscenico, le due lanterne accese nella penombra a sottolineare la povertà e l’intimità della stanza, il divertente gioco con il corpo,mosso come se un burattinaio gestisse gli arti del protagonista che poi, senza volere, creerà il saluto nazista. La croce uncinata è un origamo con cui svagarsi, un pezzo di carta con cui passare il tempo.

Senza ripetere concetti già esplicitati in passato, senza evidenti riflessioni psicologiche (anche se ad un occhio più attento se ne possono cogliere molte), con battute divertenti, ridendo, senza rendersene troppo conto, ci si ritroverà l’ Hitler che tutti noi conosciamo, quello con i baffetti, lo sguardo duro, i capelli lisci da una parte del capo. Tutto questo avverrà senza lacrime, senza momenti atroci sul palcoscenico, senza carneficine e perciò, per lo spettatore, quando se ne renderà conto, sarà ancora più dura ammettere la realtà, guardare la proiezione delle sue risate, dei momenti di leggerezza che ha provato, perchè la verità esisteva fin dal primo momento.

 Dal personaggio iniziale sprovveduto, un po’ goffo, con un linguaggio forbito, che non sopporta molto gli ebrei ma ci convive e ci sta diventando amico, in poco tempo la situazione muta. Un semplice rifiuto dell’accademia delle belle arti, una semplice inettitudine artistica, un semplice no,può davvero modificare la psiche o far scattare la scintilla di una personalità che desidera scacciare il male che ha nel cuore?. Gli uomini diventano troppo grandi, troppo alti, la terra non è più sferica, la forza di gravità diviene un impedimento, il sangue si trasforma in liquido puro.

“Quello che è, è grigio e quello che dovrebbe essere, è pieno di colori”. Non si è liberi di amare chi si vuole, di sposare chi si desidera, Herz, molto credente, non vuole cedere all’amore carnale, si ritiene Dio ma Dio ora è morto. Arriva la morte, puntuale come sempre, a chiedere il conto, a cercare Hitler per dialogarci, parlarci ma non si sa il vero motivo della sua scomoda visita, perchè “il senso della poesia , è chiaccherare con la morte”.

Gli interpreti Giovanni Arezzo, Luca Fiorino,Francesco Bernava, Alice Sgroi, Egle Doria sono efficaci e coesi tra loro riuscendo a dare credibilità ai fatti narrati. Il disegno luci rende lo spettacolo a tratti malinconico, intimo; la luce azzurra dietro i lenzuoli ferma il tempo, dando allo spettatore momenti per raccogliere i pensieri. La regia è raffinata, giocosa, intrigante.

Si fa fatica,però, a mantenere l’attenzione alta per tutta la durata dello spettacolo; risulta troppo lungo con concetti ripetuti, alcune scene sono ridondanti,la scelta di introdurre momenti goliardici e di comicità per alleggerire, può risultare, in alcuni frangenti, eccessiva per la tematica trattata,urtando potenzialmente la sensibilità di chi ha vissuto quel periodo di storia, come il balletto sulle note di “sotto casa “ di Max Gazzè. Il racconto è accompagnato da canzoni poetiche come “Amore nero” di Mannarino, utili per attualizzare la performance, per attirare la concentrazione dello spettatore e creare giusti momenti di coesione.

Mein kampf kabarett merita di essere visto, ascoltato, analizzato perchè, seppur sia un testo già conosciuto, l’adattamento teatrale svolto, suscita punti di vista non presi in analisi fino ad oggi.

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