Lamberto Lambertini: «Con Peppe Barra è la Cantata dell’amicizia»

Lamberto Lambertini, sedendosi, prima ancora di sfilarsi l’elegante cappello, avverte il cronista come per mettere le cose in chiaro: «Questo spettacolo nasce da un’incredibile amicizia che c’è tra me e Peppe Barra».

Eppure siete così diversi: nel vestire, nel parlare, nei tempi, nella convivialità.

Verissimo, ma ridiamo delle medesime cose. Amiamo le identiche follie. Pratichiamo le stesse ironie.

La «Cantata dei pastori» che è in scena alla Sala Umberto di Roma (fino al 15 gennaio) può essere, quindi, considerata una follia a quattro mani?

Certamente. Ma sarebbe più corretto dire «a sei mani». L’idea, infatti, è del nostro produttore Alessandro Alfieri. È stato lui che ha lanciato la sfida. Stavo ideando uno spettacolo improntato su «Il re muore» di Ionesco, che rivisto da me e da Peppe sarebbe diventato «Il re non muore». Proprio mentre ci stavamo accordando con la produzione, è arrivata la sorprendente proposta di riprendere La cantata dei pastori, uno spettacolo che Barra porta in palcoscenico dal 1974: prima con De Simone e la Nuova compagnia di canto popolare, poi con la madre Concetta e dopo in tante altre riprese, fino a quest’ultima.

Un momento, non corriamo. Prendiamoci il tempo e il gusto di aprire con cautela due libri densi di storia, uno antico e l’altro contemporaneo: «La cantata» scritta dal Perrucci che offre ai comici della commedia dell’arte l’opportunità di trasformarla da testo educativo in opera teatrale; e la Cantata di De Simone a cui si ispira questa edizione che è tra le più innovative.

Esattamente. Alfieri ci ha imposto delle condizioni rispetto alle precedenti edizioni: meno attori, meno orchestrali e soprattutto tempi più consoni alle esigenze del pubblico odierno.

L’entusiasmo per la sua ultima creazione, come co-autore e regista, e l’affetto che lo lega all’amico, portano Lambertini, classe 1946, ad accendere giustamente i riflettori sul presente o sul passato prossimo, consegnando la parte storica al corollario che ormai merita.

Il testo originario fu scritto dal gesuita Andrea Perrucci nel 1698 come una messa natalizia extra-liturgica, che aveva per titolo «Il vero lume tra l’ombre», ed era firmato da tal Casmiro Ruggiero Ogone, pseudonimo dell’autore che si proponeva di contrastare le immoralità licenziose dell’epoca e le facili blasfemie del popolo ribelle, soggiogato dalla cattolicissima monarchia spagnola. Che cosa ci si poteva aspettare da un gesuita che frequentava la corte dei viceré, se non una sacra rappresentazione che sfiorava più il tedio del rito?

Per le intenzioni con cui fu scritto, non sarebbe sopravvissuto per più di dieci anni. Per fortuna la fortissima tradizione teatrale partenopea di quel periodo, legata già da un paio di secoli alla Commedia dell’arte, all’improvvisazione, al desiderio dei napoletani di voler ridere anche delle cose sacre, ha rivoltato un testo moralistico in un canovaccio sempre nuovo e duttile a ogni metamorfosi. Perrucci non aveva previsto musica per la sua rappresentazione e non ha mai pensato al ruolo del prosaico Sarchiapone, un delinquente, ladro e perfino assassino, che non ha paura nemmeno del diavolo.

I creatori di Sarchiapone furono proprio i comici dell’arte.

Della «Cantata dei pastori» sono stati ritrovati molti manoscritti di epoche diverse, e fino all’Ottocento non c’è traccia di Sarchiapone. Poi, all’improvviso, accanto a Razzullo, che è uno scrivano settecentesco che si trova a Betlemme durante la nascita di Gesù, appare uno zoticone dalle gambe storte e con la gobba, ma dalla salace battuta pronta, il quale serviva da spalla alla comicità di Razzullo. Con gli anni i due personaggi si sono sempre più equilibrati, tanto che oggi ciascuno sostiene l’altro. E nel mio ultimo allestimento, addirittura, sembra che siano le due facce della stessa figura: l’uno evoca l’altro. Sarchiapone diventa il mister Hyde del Razzullo dottor Jekyll.

C’è anche l’innovazione della musica.

La musica è necessaria. Sempre. Difficile immaginare uno spettacolo popolare della nostra tradizione senza musica, anche se veniva rappresentato la notte della Vigilia. Sempre i comici dell’arte avevano introdotto qua e là alcune melodie che non avevano nulla delle cantate pastorali o religiose, ma anzi ripetevano i ritornelli già rinomati delle canzoni più famose del momento. Sarchiapone, per esempio, a inizio Ottocento intonava «Palummella zompa e vola». Un’usanza che s’è mantenuta viva con il passar del tempo: negli anni Cinquanta del secolo scorso, si arrivava a canticchiare anche i primi successi di Sanremo o del Festival di Napoli. Questi episodi, bizzarri che fossero, soprattutto per la notte del 24 dicembre, hanno svelato la vera anima della rappresentazione. La notte di Natale, dopo cena, c’era chi preferiva andare a messa e chi a teatro, senza che nessuno facesse torto alla tradizione.

Musica e tradizione, una manna per Roberto De Simone.

Non a caso «La Cantata dei pastori», in tempi più moderni, l’ha riesumata De Simone riproponendola con la Nuova compagnia di canto popolare e con il repertorio musicale che quel magico gruppo già coltivava. Quando vidi per la prima volta la Nccp rimasi estasiato da quei suoni e da quei canti che erano la voce di una Napoli ancestrale a cui non eravamo più abituati. De Simone è riuscito a restituire ai napoletani le autentiche sonorità di una città che per oltre un secolo si era servita di una canzone elegante, bellissima, ma che aveva perso ogni rapporto con la prima popolaresca radice sonora. E con quegli strumenti, quella musica e quegli esecutori, tra i quali Peppe Barra, portò al successo la nuova «Cantata dei pastori».

E a questo punto arriva Lamberto Lambertini.

Era nata l’amicizia con Peppe. Avevo conosciuto anche Concetta, sua madre. Venivano a casa di mia mamma dove per gioco si esibivano e insieme si rideva, e si inventavano situazioni teatrali. Ci fu anche una crisi tra Barra e De Simone, dopo la prima edizione della «Gatta Cenerentola», che contribuì a rafforzare il nostro legame. Nel 1982 Maurizio Scaparro volle Peppe Barra al Carnevale di Venezia e Peppe non esitò a chiamarmi per confezionare un nuovo spettacolo: nacque così «Peppe e Barra», una creazione di scene il cui tormentone era scandito da una straordinaria Concetta Barra, una donna a cui sono tutt’ora legatissimo, tanto che ne ho fatto un film. Si intitola «Nata a Procida». Non un documentario, ma un atto d’amore per una immensa attrice, una superba cantante e una donna straordinaria. Nel film uso tutto il materiale che ho raccolto durante le frequentazioni mie con i Barra, e alle lettere e agli scritti di Concetta ho dato la voce di Lalla Esposito.

Della quale però parliamo fra poco. Torniamo a Venezia nell’82.

Lo spettacolo andato in scena al teatro Goldoni fu una rivelazione, per me soprattutto. E quando, poco dopo, Barra mi propose di occuparmi dell’allestimento della «Cantata dei pastori» candidando sua madre Concetta al ruolo di Sarchiapone, io mi entusiasmai. Fu una grande innovazione e un successo straordinario. Rispetto all’edizione di De Simone, oltre a cambiare le musiche, l’avevamo sfoltita di tutti i significati simbolici che ne facevano comunque una rappresentazione densa di sacralità. Io invece volevo che diventasse una mera operazione teatrale, un gioco di attori: per cui ho cancellato ogni riferimento ecclesiastico. Quel che si vede di religioso nel mio spettacolo appartiene al presepe napoletano e non alla chiesa.

E poi?

Poi, dopo tre anni di repliche in tutto il mondo, Concetta morì e io partii per girare un film in India. La mia assenza da Napoli, senza un motivo preciso, sancì un silenzio di 25 anni tra me e il mio amico Peppe Barra. Anni durante i quali lui spesso s’è rifugiato nella «Cantata» senza mai più trovare una partner giusta che potesse sostenerlo in scena. Fino a quando ci siamo rincontrati e in un attimo abbiamo recuperato l’affetto, le complicità ironiche, e l’affiatamento artistico che ha dato vita prima a «Non c’è niente da ridere» e ora alla «Cantata dei pastori».

Un’edizione ancora differente: più svelta e briosa.

L’ho detto prima: sono state le indicazioni precise della produzione, che spesso per far quadrare i conti al botteghino, trova le soluzioni più pratiche. Quindi ho usato la tecnica del montaggio radiofonico. Quando una battuta non produce alcun effetto, si taglia: così da quasi tre ore, lo spettacolo oggi non supera i 110 minuti. Anche le scene di Carlo De Marino, prive di ogni arredo, ma essenziali e favolistiche, e le musiche di Giorgio Mellone, contribuiscono a rendere l’allestimento più piacevole e leggero.

E Lalla Esposito?

Lalla è stata il collante della nostra rinata collaborazione artistica. Ci mancava una prima donna e con lei l’abbiamo trovata. Quando Lalla è in scena Peppe, ancor più di me, è tranquillo e sereno. Lalla ha i tempi comici, ha una forza drammatica potentissima e una voce incantevole. In scena indossa una parrucca assai improbabile, una gobba, un vestito ridicolo, eppure, dice Peppe, è una compagna meravigliosa. E io non posso che essere felice di questo connubio, che altro non è che una nuova amicizia.

È vero, Lalla non è propriamente un’attrice, così come la vorrebbe un immaginario codice etico, piuttosto un antico scugnizzo che sarebbe piaciuto moltissimo a Raffaele Viviani più che a Vincenzo Gemito, che non riesce a trattenere la sua eterna spumeggiante vitalità. Nemmeno sotto il peso di una scomoda gobba.

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La cantata dei pastori di Peppe Barra e Lamberto Lambertini; con Peppe Barra e Lalla Esposito e con Luca De Lorenzo, Serena De Siena, Massimo Masiello, Antonio Romano, Rosalba Santoro. Regia Lamberto Lambertini. Alla Sala Umberto, fino al 15 gennaio.