Jon Fosse: Statue del tempo e teatro dell’assenza

Sparsi nel tempo, attoniti burattini di una danza in parallelo

di Marco Buzzi Maresca

Il tempo, la crudeltà del tempo, il tempo non tempo, l’immobilità. 

E’ il mondo di iettatezza ed evanescenza che caratterizza a vario titolo i testi del recente premio Nobel, Jon Fosse, e che ben si esemplifica in La ragazza sul divano  splendidamente portato in scena al Teatro Vascello da Binasco, uno dei pochi interpreti italiani del drammaturgo norvegese (insieme ad Alessandro Machìa). 

Isabella Ferrari e Giordana Faggiano

Di che si tratta ?

Il marito è un marinaio. E’ sempre per mare. E la moglie ha una relazione col fratello di lui. La ragazza sul divano è la figlia ingenua, che non vuol vedere la tresca della madre, e spera sempre nel ritorno del padre, mentre la sorella, che si veste in modo sguaiato, ed esce con uomini, la provoca, sia sessualmente che sbattendole in faccia, con rabbia, la verità famigliare.

Poi la madre se ne andrà con lo zio, la sorella si sposerà, e la ragazza pure, salvo poi abbandonare il marito che, pur innamorato, si rassegnerà a nuovo matrimonio.  La ragazza così rimane sola, pittrice senza talento e convinzione, accanto al padre tornato, a una madre e a una sorella assenti, e ad un marito risposato non più fungibile, e che rimpiange amaramente. Così sarebbe se la trama fosse lineare, con la relativa suspence drammatica, o funzionasse per chiari flasback, dall’infelicità del presente.

Tuttavia, è e non è così.

Il tempo è immobile, già dato, fatto di compresenze parallele. Nel testo ci si mette di più a capirlo, con un surplus quindi di indefinito e spaesamento. Scenicamente la compresenza a vista chiarisce prima il meccanismo. Iniziano in compresenza infatti due discorsi, quello della ragazza seduta sul divano, e quello dell’anziana donna al tavolino. E pian piano si capisce che sono la stessa persona ad inizio e fine vita.

Ma non è un ricordare (bilancio) o un immaginare (speranza, ribellione, disperazione).

E’ lo srotolarsi di un tempo immobile, di un destino che è eterna coincidenza di presente e passato, un accadere già accaduto e che continua ad accadere, che incombe. Un tempo circolare, dove due momenti compresenti si guardano, con un vissuto prigioniero ed allucinatorio, specchiandosi uno nell’altro, in sofferta paralisi, nel dolore della prigionia. Perché, come dice la donna, “Il passato è ancora qui, senza essere qui”.

Senza essere qui.

Questo è il punto, ed una affermazione densa di polisemia.

Perché in Fosse si congiungono il cechoviano senso di una vita non vissuta ed il beckettiano dolorante ed ironico nonsense del senso di attesa e sfacelo, in metafisica compresenza. In altri testi di Fosse addirittura vi è ambigua compresenza di vivi e morti. Ma anche qui i due momenti di vita (ragazza-donna), sono due momenti di vita-morte, nella loro irredimibile sospensione.

Il centro del testo è l’assenza, la vita come assenza, una vita che è qui senza essere qui. Il passato è qui, non mi abbandona il suo effetto, ma non è qui per rendersi un presente modificabile. Il passato è assente, ma rende anche assenza il mio presente.

E perciò, con maestria, il regista moltiplica gli effetti di questa paralisi della dissolvenza e della compresenza, con continui effetti di stop motion. Continuamente, mentre alcuni momenti tempo, momenti persona, agiscono, altre persone ed altri spazi stanno in stop motion, come attonite statue pietrificate. 

Più spesso in tristezza, talora in melanconica attonita comicità, un po’ sulla linea del vaudeville cechoviano. Questo effetto di connessione distante, di connessione nel vuoto, di vita non vita, è ben evidenziato ed amplificato dalle scelte di scenografia e prossemica. 

Lo spazio – tutto grigio, come le loro esistenze – è sgranato in un vuoto pausato da poche postazioni. Davanti il frigo, il divano, un tavolino. Dietro una porta, ed una parete che, opaca funge da base alla proiezione dei quadri della donna (gigantografie del suo dialogo con l’impotenza), e retroilluminata rivela la stanza della tresca, e quindi il luogo del tradimento della madre: adulterio e fuga. 

Il padre assente. 

La madre assente al dolore della figlia, e poi in fuga. Ed alla fine morente. Ed in questo spazio di ben architettata assenza-presenza ogni attore gioca con sapienza la sua parte.

La ragazza sul divano (Giordana Faggiano) – con pregnanza gestuale infantile e lamentosa – è la bambola-bambina fuori tempo massimo, la cui inchiodatura al divano fa giustamente da titolo alla pièce, come simbolo della paralisi che la inchioda a casa e figlità.  Sì, figlia non figlia, a casa senza vera casa. Attesa di casa.

Perché lo vedremo, lascerà il marito perché, come gli chiarisce, non riesce a stare né sola né con qualcuno .. “Dove ci sono loro non ci sono io”. Cioè ?  Cioè i genitori non la vedono, e la loro assenza non le permette di crescere. Di esistere. 

Quindi lei non c’è mai a se stessa, perché loro sono sempre dentro di lei, e lei non esistendo non può esistere con un uomo. Non può staccarsi dal divano.  Può dipingere solo ciò che vede, ma non la vita, ciò che sente, perché la vita scorre, è trasformazione, ma lei non vive, e dunque sente senza sentire.

La sorella – tutta sguaiatezza rabbiosa – rappresenta la vita che tenta di chiamare la ragazza, ed è ben giocata (con le sue contorsioni seminuda sul divano, e l’esplosione di riso beffardo) da una frizzante Giulia Chiaramonte.

La parte più complessa tuttavia è quella della donna (una magistrale Pamela Villoresi). Deve infatti spaziare tra mestizia rassegnata, dolore della memoria, stupore, ironia filosofica ed improvvise accensioni di disperazione, ora attonita, ora urlata. 

Così la vediamo imbambolata, in mutande, camminare verso un quadro a parete, e poi attonita con una bambola, dietro al divano di sé giovane. O in ginocchio alla fine, che piange col padre. O esplodere in un urlo disperato, perché l’ex marito, al funerale della madre, non se ne vada. Ma anche, accovacciata a terra, mettere ed ascoltare un disco su cui ruota – appoggiato un vasetto di rose. Un momento di sogno e mestizia. 

La madre e lo zio sono più giocati sul versante comico, prevalentemente quello della distrazione e dell’imbarazzo di fronte alla ragazza. La madre anche con altalene tra irritazione ed evasività (ben gestite da una Isabella Ferrari un po’ pupazzo ubriaco). Lo zio magistralmente virato tutto alla comicità del disagio da un Michele Di Mauro tutto articolato su mezze pause, gesti, interruzioni, facce in maschera.

Forse solo un po’ eccessiva come scelta di regia nel registro del comico (una concessione al pubblico) la scena in cui lui si butta con la testa tra le gambe di lei, con squittii comico orgasmatici, interrotti dall’arrivo imprevisto del marito.

Di Mauro tuttavia – virando il suo stile di comica atonia perplessa anche al registro della mestizia – riesce ad avere altri toni, di dolente saggezza ed empatia. È il caso di quando giustifica i silenzi epistolari del marito (suo fratello) con profonda comprensione per la sua sofferenza. Non si tratta di indifferenza, ma di una difesa dalla lancinante ed insopportabile solitudine che lo attanaglierebbe in mesi in mare se dovesse lasciarsi andare al pensiero della sua famiglia.

Foto di scena

Tutti bravi dunque.  E in definitiva, pluralità di toni, prigionia temporale, distanza e compresenza, in un concertato ben equilibrato, ci restituiscono con intensità e varietà ben temperata il disagio senza centro (escheriano) dell’universo di Jon Fosse.

La ragazza sul divano di Jon Fosse – Regia di Valerio Binasco – Traduzione Graziella Perin – con: Pamela Villoresi, Valerio Binasco, Michele Di Mauro, Giordana Faggiano, Fabrizio Contri, Giulia Chiaramonte, Isabella Ferrari – Scene e luci Nicolas Bovey – Costumi Alessio Rosati – Suono Filippo Conti – Video Simone Rosset – Assistente regia Eleonora Bentivoglio – Assistente scene Eleonora De Leo – Assistente costumi Rosa Mariotti – Teatro Vascello – 16 -21 aprile 2024

Musica
Patrizia Boi

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