INTERVISTA A DANIELE GUASTINI: Il silenzio di fronte alla catastrofe

Il tempo della crisi è il tempo delle differenze. Un tempo in cui si richiede a tutti, secondo le proprie possibilità, di “fare la differenza. Risulta ormai tristemente evidente come il tempo concesso al teatro, per come noi oggi siamo abituati a concepirlo, nel suo carattere intrinsecamente comunitario, anche se sempre più svuotato di questa funzione, stia per scadere. Siamo alla ricerca delle motivazioni profonde che stanno alla base di trasformazioni, tanto incontrovertibili quanto inconsapevoli.

L’intento del presente lavoro, proposto dalla redazione di Quarta Parete, si vorrebbe articolare attraverso il dialogo e il confronto con chi, a nostro avviso, abbia delle chiavi di lettura attendibili, concrete e convincenti sul futuro che ci attende.

DANIELE GUASTINI insegna Estetica nel dipartimento di Filosofia de “La Sapienza”. Studioso in particolare del pensiero antico, sia greco ed ellenistico sia cristiano, ha scritto un’edizione commentata della “Poetica di Aristotele e ha in corso di pubblicazione un libro sulle prime immagini cristiane dal titolo “Immagini senza cura. Raffigurazioni cristiane e cultura antica.

 

In “Come si diventava uomini. Etica e poetica nella tragedia greca” scrive: «Ma che significa scegliere involontariamente la sorte?». Mentre siamo quotidianamente sommersi da “profezie” di ogni tipo, diviene cruciale domandarsi se sia bene limitarsi a sfuggire agli inquietanti scenari prospettati dalla comunità scientifica, al fine di migliorare la nostra sorte, o se non ci sia – accanto a questa dimensione assolutamente legittima – qualcosa da imparare dall’antichità, a partire dall’azione apparentemente ineluttabile del destino nella tragedia.

Gli effetti primari del virus – e non collaterali, come spesso si sente dire – sono da riscontrare, prima ancora che in ambito sanitario, dal punto di vista sociale. Il virus è come un grande acceleratore di processi già in atto, riguardanti la parcellizzazione e la distruzione di tutte le forme di comunità. Il teatro in questa situazione paga un prezzo più alto, rispetto ad altre attività. In fondo, la possibilità di scegliere di poter andare a teatro (esattamente come si va al cinema o come si sceglie di vedere un film in tv), oltre che una maniera libera e liberatoria di fruirne, è già un modo di snaturarlo, perché lo allontana dalla sua originaria natura di evento festivo. In quale occasione, del resto, il teatro sembra, per un momento, assumere di nuovo la sua antica funzione politica? Direi, soprattutto, durante i grandi festival, in cui torna per un istante a incarnare il suo originario ruolo comunitario, aspetto su cui questo virus — che sembra così intelligente da colpire tutti gli anelli deboli della società odierna — mette la sua più nera ipoteca.

In questo tempo di incertezza grava su di noi un vero e proprio «limite di cognizione», legato alle conoscenze parziali che si hanno in merito al virus. Ma allo stesso tempo, non può non sorgere il dubbio che le vere mancanze della nostra società siano da un’altra parte, ovvero in una coscienza non chiara dei nostri limiti. E se così fosse, cosa possiamo imparare dalla tragedia? Da dove ripartire per sperare in una rinascita del teatro, nonostante i limiti imposti dal governo?

La tragedia attica ci insegnava a riconoscere il ruolo fondamentale della scelta all’interno di ciò che ci appare, a tutta prima, solo come un destino predeterminato. Educava l’uomo a comprendere che, evitando di commettere certi errori (primo fra tutti quello di danneggiare i philoi, ovvero i “cari”), si ha davvero la possibilità di essere per quanto, ovviamente, entro i limiti umani, felici, compiuti, “realizzati”. Qui, peraltro, sta tutta la differenza con gli dèi, che invece erano considerati essere felici per sempre. Si tratta di un insegnamento che, in qualche modo, possiamo ancora trarre dal teatro e proprio perché il teatro è una forma di rappresentazione ancora legata a un luogo fisico e quindi meno compromessa con la «riproducibilità tecnica». Da questo punto di vista, ancora oggi il teatro risente meno di altre forme artistiche della trasformazione della rappresentazione in spettacolo. Però, se pensiamo al tipo di partecipazione cui poteva aspirare lo spettatore antico, raggiungendo quella che Aristotele chiamava «catarsi», ci accorgiamo che qualcosa del fenomeno tragico è andato comunque perduto e la spettacolarizzazione è avvenuta anche nel teatro, dove lo spettatore moderno, coinvolto nella rappresentazione drammatica solo con il suo gusto, ha guadagnato una posizione sempre più distante ed estranea alle vicende messe in scena, al loro senso, dicevo già, politico, educativo, comunitario. Insomma: qualcosa dell’antico evento teatrale forse resta, ma coperta da impalcature che non permettono più di accedervi. Queste impalcature costituiscono proprio ciò che definiamo “società dello spettacolo, la cui pressione temo sia troppo forte perché una singola attività possa sfuggirvi. La “spettacolarizzazione” riguarda ormai tutti gli aspetti della vita sociale. Non solo quelli propriamente artistici, ma anche quelli politici, economici e oggi perfino quelli medico-sanitari. Malgrado il teatro abbia qualche “anticorpo” in più, rispetto ad altre forme di rappresentazione, temo non possa più invertire una certa tendenza inerziale.

Tra i grandi pericoli della crisi c’è la tentazione di affidarsi ciecamente all’irrazionalismo e alla follia collettiva. In fondo, ciò che più appare spettrale e fantasmatico del nostro nuovo nemico è proprio la sua invisibilità. In un suo recente articolo, firmato insieme a Roberto   Della Seta (“Il coronavirus e l’ecologia delle parole”), parla di un vero e proprio “spettacolo pandemico”. Quale relazione potrebbe esistere tra la “spettacolarizzazione” degli eventi e l’invisibilità spettrale di un nemico mai visto prima?

Questa domanda mi permette di far entrare in gioco, proprio a partire dalla propagazione mediatica del virus, la questione dell’informazione, che oggi costituisce il problema centrale delle nostre società. Mi sento di dire — anche a costo di apparire cinico — che, ancor prima che il numero dei contagi nel mondo crescesse a livelli effettivamente preoccupanti, è stata soprattutto l’informazione ad aver configurato, con il suo ormai tipico martellante battage, le dimensioni assunte dalla pandemia. L’informazione sull’epidemia è penetrata in modo assai più capillare e globale del virus, correndo più veloce e trasformandola in “pandemia” prima che questa fosse davvero tale. Oggi il fenomeno è davvero quello di una pandemia, ma il risultato ottenuto da questa anticipazione è quello tipico dei processi della ridondanza informativa: l’assuefazione. In questo senso si può parlare, a buon diritto, soprattutto di infodemia. Il passaggio in fondo è semplice: la “spettacolarizzazione” produce infodemia e l’infodemia produce, a sua volta, assuefazione.

Altre epidemie ben più spaventose sono state in passato vissute dall’umanità in modo assai meno invalidante e più fatalistico. Questo perché, accanto ai valori dell’immunitas, si era ancora capaci di considerare quelli della vita activa, che controbilanciavano il senso della “nuda vita”. Oggi, invece, non siamo più in grado di far convivere queste due dimensioni in modo sano ed equilibrato, e in questo movimento di sbilanciamento l’informazione ha un ruolo, direi, fondamentale. Lo possiamo ben vedere proprio in questa circostanza, dove l’informazione ha costituito lo strumento principale di misura della gravità dell’epidemia, costruendo un’immagine del mondo come assediato da un virus che, per quanto grave e insidioso, non coincide integralmente con le nostre vite, come invece un’informazione sempre più “spettacolarizzata” tende di continuo a mettere in scena. Si produce così un’immagine del mondo tutta quanta appiattita sulle vicende dell’epidemia, senza che nulla possa più sfuggirvi.

Ci tengo a sottolineare, tuttavia, come questo tipo di ragionamenti non vadano in alcun modo confusi con quegli insensati argomenti negazionisti che, viceversa, mi pare, costituiscano, semmai, esattamente l’altra faccia di questa logica infodemica.

In quanto docente universitario, come valuta possano reagire le nuove generazioni dinnanzi a quanto sta accadendo?

Non amo particolarmente le “profezie”, pertanto mi limito a notare un fenomeno del tutto inatteso. A fronte della previsione di un crollo degli iscritti, le università italiane hanno avuto un aumento delle adesioni, che ha raggiunto quasi il 10% e fino al 14-15% per le università con maggiori dotazioni tecnologiche, come nel caso de “La Sapienza”. Tale dato è probabilmente dovuto alla maggiore facilità di accesso e fruizione delle lezioni, anche da remoto. Così, la figura dello studente “fuori sede, con i disagi che questo ha sempre comportato, è in qualche modo venuta meno. E tuttavia mi rimane il dubbio se in un’università senza più sedi fisiche — ciò che si sta profilando per questa antica istituzione in ogni parte del mondo a seguito della pandemia — tutti, studenti e docenti, non si stia diventando “fuori sede” in un altro, più sottile, senso. In tale “smaterializzazione” dei luoghi fisici dell’università, rivedo, insomma, un processo analogo a quello di cui abbiamo parlato per il teatro. Si pensi, ad esempio, al concreto rischio che molti/e tra studenti e studentesse, che un tempo partecipavano attivamente alla vita universitaria, possano non recarsi più a lezione, anche qualora ne abbiamo la possibilità. Le somiglianze con il teatro sono lampanti.

Più in generale, credo che gli effetti prodotti da questa epidemia sulle nuove generazioni ci permettano di coglierne il carattere più subdolo: quello di essere causata da un virus che ha conseguenze più sociali che sanitarie. Le giovani generazioni sono apparentemente meno colpite dal punto di vista sanitario, ma lo sono certamente di più sul piano sociale, poiché su di loro già gravava il fardello maggiore della deviazione spettacolare, che caratterizza le nostre società. Si pensi alla questione degli assembramenti. Estraniati dal corpo sociale, anzi espulsi dal corpo sociale, i giovani tendono ad “assembrarsi” non in comunità ma in tribù le cui regole, costumi, pratiche, in tempi normali sono stati incoraggiati perché del tutto funzionali alla crescita della “società dello spettacolo”, e ora sono, di punto in bianco, divenuti devianti. Basti solo guardare all’uso, ormai quasi parossistico, che i giovani fanno dei social. Secondo me, tali pratiche devianti lo erano già, ma solo oggi se ne coglie tutto il profilo di asocialità. Il rischio maggiore, in questo rimescolamento di valori e prassi è allora che i giovani finiscano per assumere il ruolo di reietti e untori della nuova epoca, emarginandosi sempre di più dal corpo sociale.

Quindi, per rispondere alla domanda, direi che, come in tutti i momenti critici della storia, anche a proposito della capacità di reazione delle giovani generazioni siamo di fronte a un bivio: da un parte c’è la possibilità che esse escano dalla crisi con una nuova consapevolezza (ad esempio, con la coscienza che ‘social e ‘sociale’ sono due antonimi), dall’altra il pericolo di non riuscire più in alcun modo a raggiungere la rinnovata e necessaria consapevolezza che occorre cambiare la prospettiva che il Covid ha, come dicevo prima, solo accelerato.

In che modo lo spettatore antico assiste alla tragedia con un certo distacco e, allo stesso tempo, sentendosi pienamente parte di ciò che avviene sulla scena? È forse questo il destino che attende i nostri spettatori nell’epoca dellimmunitas?

Lo spettatore antico assisteva alla tragedia come alla commedia in modo quasi “liturgico”. Questo è il principale effetto di ciò che dicevo prima circa il carattere festivo del teatro. Peraltro, si spiega così il termine theoros, che potremmo tradurre con ‘contemplatore’, impiegato nel greco antico per ciò che oggi definiamo con ‘spettatore’. Originariamente la rappresentazione teatrale era pensata come una vera e propria manifestazione religiosa, pertanto si andava a teatro per vedere, questa è l’etimologia del termine greco, letteralmente “brillare il divino”. Da questo punto di vista, se devo dire qual è l’immagine che considero finora più adeguata al momento che stiamo vivendo, tra tutte quelle ridondati e veicolate dagli organi di informazione in questi mesi, direi che è la via crucis celebrata dal Papa in solitudine, in una notte di pioggia, il Venerdì Santo del 2020. Completamente priva di ogni orpello o elemento spettacolare, a mio parere coglie più di ogni altra rappresentazione il senso del nostro tempo, fornendone anche l’unica risposta possibile: il silenzio di fronte alla catastrofe.

La sua è una professione inattuale. Risulta ormai del tutto anacronistico definire qualcuno/a filosofo/a. Quale espressione le pare invece più adeguata per descrivere il suo ruolo nella società?

Mi definirei, semplicemente, come uno che è professionalmente incaricato — e che quindi ha un dovere nei confronti della società, e soprattutto delle giovani generazioni — di ricordare che le cose nel corso della storia sono andate in modo diverso da come vanno ora, che il modo in cui vanno ora non è qualcosa di eterno, né di superiore. Mi basterebbe la speranza di far parte, anche minima, di quel movimento di resistenza all’oblio, alla dimenticanza del senso della storia che solo può attivare l’aspirazione a non illudersi né accontentarsi, abbandonandosi passivamente al presente e alle sue, facili attrattive. Ma per farlo, ci vorrebbe, come dice bene nella sua domanda, una carica di “inattualità” che difficilmente oggi si può essere, filosofi compresi, ancora in grado di detenere. Anche in questo caso, le analogie con il teatro sono lampanti. Anche la filosofia rischia di soccombere alla pressione della “società dello spettacolo”. In fondo, ciò che fino ad ora ho definito con questa espressione, se lo volessimo pensare nella sua opposizione con la “vita teoretica” e “il governo dei filosofi” concepiti dai Greci, potrebbe essere anche chiamato, più semplicemente, “società dell’ignoranza. Gli opinion makers del nostro tempo, nonostante possano incidere, grazie a una strumentazione tecnica di inaudita pervasività, sull’opinione pubblica in maniera molto più profonda di quanto potesse avvenire in passato, divulgano, di regola, una visione assai superficiale del mondo. Qualcosa di più comodo, più accattivante, e dunque più facile a diffondersi — proprio come un virus! — di ciò che è più arduo capire e più impegnativo mettere in atto. Teatro, filosofia, università, spero saranno ancora capaci di fare da contromovimento, da “antivirus.

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